Rubrica a cura di Daniele Flavi
Wimbledon il torneo degli eletti dove si fa di tutto per un posto da vip
Gianni Clerici, la repubblica del 20.06.2011
Ogni anno è la stessa storia. «Forse passo da Londra, verrei volentieri a Wimbledon. Mi trovi un biglietto?». Nessuno, tra chi non ci è mai stato, crede che, da gennaio, da quando si è svolto il ballott, il sorteggio tra i richiedenti che hanno inviato assegno per ottenere due posti numerati, biglietti non ce ne sono più. O meglio. Ne rimangono 1500 ogni mattina, offerti ai coraggiosi che affrontano la coda notturna - mai provarci dopo l'alba - coda che rappresenta, un'impresa avere i biglietti dopo il sorteggio e le code della vigilia. Gli inviti ai reali e ai soci in cravatta verde e viola Prove fideistiche per l'ammissione Un Maraja in blazer blu e turbante finse di essere in fin di vita per entrare fra i 375 member anche un simbolo di aficion, e la possibilità di divertirsi, come in campeggio, tra tende e grigliate e birre. Al povero Scriba, nonostante ci abbia giocato-male - due volte, e ci sia andato, primo cronista italiano della storia, nell'anno di fondazione del Giorno, 1956, biglietti niente, se non, rarissimi, quelli - pagati, of course - agli amici Chairman, Presidenti, tra i quali l'ultimo, Tim Phillips, si è ahimè, appena dimesso, e bye bye, lui e l'introvabile biglietto. Toccano, i biglietti invito, alla Famiglia Reale, quasi sempre assente, al Duca di Kent, Presidente Onorario dello All England Tennis and Croquet Club, e ai Signori Soci, costretti ad affrontare prove da catecumeni per diventare tali. Se aveste occasione di dare un'occhia-ta, il mattino, nei dintorni del cottage che affitto ormai da mezzo secolo, vi trovereste benissimo accolti da bei signori con il cappello ornato da una nastro verde e viola, e stretti al collo da una cravatta, sempre verde viola, i colori del Club. Questi signori, nella vita membri della Upper Class, affrontano per alcuni anni una prova fideistica, svolgendo il compito di Honorary Steward, e cioè di incaricati, per rendere più facile l'accesso al pubblico. E attendono il battesimo che li ammetterà tra i trecentosettantacinque privilegiati Member, che li avevano preceduti nella trafila. Le storie di ognuno di loro non sarebbero male per tracciare una struttura romanzesca sulla società britannica, ma la mia modestia di Scriba mi consentirà, spero, di rimemorame una, secondo me emblematica, quella del Maraja. Torniamo indietro nel tempo, quando l'India non è più una colonia britannica, e i capi di Stato, i Maraja, vengono spossessati. Uno di loro, appassionatissimo di tennis, si trasferisce allora a Londra, in un grande appartamento del Mayfair, e un suo amico Socio inizia ad invitarlo a far quattro palle. Gioca benino, è sempre pronto all'acquisto delle Dunlop e dei pimms, e appare insomma dotato di qualità indispensabili per divenire un Member, un Socio. Lo invitano ad awenturarsi nel noviziato di Steward ed ecco che qualcuno abbastanza vecchio come lo Scriba ricorda di esser stato accolto da un inatteso gentleman in blazer blu e turbante. Passa un giorno passa un anno, due anni, tre anni, ma il Maraja non viene accolto quale Full Member. Il suo abituale partner, medico, fa presente al Comitato che il Maraja non gode di una grande salute, e non sarebbe insomma un errore affrettare, almeno un tantino, le pratiche. Nonostante il Comitato si riunisca per valutarne la possibilità, la pratica sembra andare per le lunghe, sinché, forse per la mediocre salute, si vede sempre meno spesso ilMaraja in campo, sinché, un giorno, la sua presenza svanisce. Incuriosito, uno dei membri giunge a permettersi una telefonata, alla quale il Segretario del Maraja risponde con la dignità consentita a qualcuno in lacrime: il suo padrone giace fuori conoscenza, vegliato dai famigliari appositamente ritornati dall'India. A simile notizia, i Signori Membri decidono di convocare una riunione straordinaria del Board, e di concedere al povero Maraja la Full Membership, augurandosi che un barlume di conoscenza gli consenta di prender atto del grande onore concessogli. Ma nulla accade, per una, due, tre cinque settimane, sinché, all'inizio degli Championships, ecco riapparire il Maraja, in compagnia del-l'am ico medico e di un servitore impegnato a difenderlo dalla pioggia con l'ombrello. Sorridente, arzillo, elegantissimo nel suo blazer e nella cravatta viola e verde del Club, si assise nella speciale tribuna del Centre Court, e lo si vide poi spostarsi nella Member Enclosure, in cui, assieme alle Fragole con Panna, non tardò ad offrire ai presenti una bottiglia di Champagne millesimé. Ma devo ammettere che questa, così come i cinquantacinque anni passati a Wimbledon dallo Scriba, è una storia vecchia, vecchia quanto il Maraja che è ormai morto davvero. Sepolto, of course, con al collo la cravatta verdeviola.
«II mio tennis sempreverde»
Gabriele Marcotti, il corriere dello sport del 20.06.2011
«Faccio del mio meglio ogni giorno per allenarmi con l'intenzione di essere un giocatore migliore rispetto al giorno prima». Rafa Nadal ha spiegato la sua filosofia di gioco e di vita. Ma per il maiorchino, che a Wimbledon non perde dalla finale dei 2007, «essere un giocatore migliore non vuol dire vincere di più. Perché la vittoria e la sconfitta dipendono dai dettagli, dalle piccole cose». Nadal, reduce dalla sconfitta contro il francese Jo-Wilfried Tsonga nei quarti di finale al Queen's, ha assicurato di sentirsi più completo rispetto al 2008, l'anno del suo primo trionfo sull'erba londinese nella finale contro Roger Federer, da molti considerato il miglior match di tennis di tutti i tempi. A proposito dello svizzero, Nadal ha sminuito le sue possibilità di raggiungere e battere il primato dei 16 Slam vinti in carriera da Federer. Nonostante abbia trionfato in quattro degli ultimi cinque giocati, con l'unica eccezione degli Australian Open dello scorso gennaio, Rafa si nasconde. «Sono molto lontano dalle sedici vittorie di Federer. Per me è ancora un sogno - ha proseguito - Forse per voi giornalisti la prospettiva è diversa, ma secondo me è «Ogni giorno faccio di tutto per crescere Poi posso anche non vincere: stiamo tutti giocando alla grande» impossibile ripetere il mio 2010, con tre Slam di fila!». Pronostici apertissimi secondo il maiorchino, che distribuisce equanimamente i favori della vigilia. «Penso che stiamo giocando tutti bene. Djokovic ha vissuto una stagione straordinaria, i primi sei mesi dell'anno sono stati incredibili. Anche Roger sta facendo molto bene ed è stato fantastico al Roland Garros. Murray ha iniziato bene in Australia, poi ha attraversato un momento difficile ma ha giocato come sa sulla terra rossa e al ritorno sull'erba ha vinto il Queen's». Tuttavia anche Rafa è contento della sua prima parte di stagione. «Credo di aver fatto bene in questi primi sei mesi», nonostante le sconfitte in finale, sempre contro Novak Djokovic, nei Masters 1000 di Indian Wells, Miami, Madrid e Roma. «In fondo - ha commentato Rafa - erano pur sempre finali. Poi ho vinto il Roland Garros, che per me è un torneo speciale. Adesso mi concentro solo su questo torneo, senza guardare al passato. E adoro giocare sull'erba». D'altronde il maiorchino non ha mai nascosto la sua predilezione per i Championships. «All'inizio della mia carriera, tutti mi dicevano che il mio stile di gioco non si sarebbe adattato a questa superficie. Ma in fondo, sull'erba, l'unico vero problema arriva se affronti un avversario dotato di un grande servizio, perché il gioco è troppo veloce e non ti diverti. Hai la sensazione di non toccare la palla per un sacco di tempo». Diverso se l'avversario è "normale". «In quel caso riesci a rispondere al suo servizio, allora anche il gioco da fondo diventa bello da guardare e fantastico da giocare. Certo, non puoi essere troppo difensivo, ma ci sono molte opzioni tra cui scegliere: puoi giocare aggressivo, puoi variare con lo "slice", puoi scendere a rete». Non poteva mancare uri commento sul golf, altra passione di Rafa: molto legato allo scomparso Severiano Ballesteros, lo spagnolo è un tifoso del nordirlandese Rory Mcllroy. «Seguo i tornei quasi tutte le settimane, e credo che Rory abbia il miglior swing al mondo». A golf ha anche giocato Nadal, tornato a *** casa dopo l'eliminazione al Queen's. «Ho giocato il mio miglior golf di sempre, era tantissimo tempo che non mi concedevo una vacanza. Ho festeggiato con gli amici e trascorso il weekend con la famiglia. Ne avevo davvero bisogno: non tornavo a casa dal match di Coppa Davis contro il Belgio di febbraio»
«Io, Agassi, a 41 anni ho fatto pace col tennis»
Gaia Piccardi, il corriere della sera del 20.06.2011
Assiso come un piccolo Budda in tuta verde sull'enorme divano del museo del tennis dentro lo stadio del Roland Garros, la testa perfettamente rotonda da charliebrown, le braccia glabre, lo sguardo dolcissimo, alle spalle una libreria di volumi che non ha mai letto (ma ne è bastato uno, l'accattivante autobiografia «Open», per entrare nella storia della letteratura sportiva) e di fronte un bicchier d'acqua che non berrà, Andre Agassi è l'uomo sceso dai cartelloni pubblicitari di cui Parigi è tappezzata per parlare delle scuole che costruirà negli Stati Uniti, dell'odiato gioco che l'ha reso ricco e famoso e, tangenzialmente, anche un po' di sé. Niente, in questo Agassi di seconda generazione pacato e quasi ieratico, ricorda i tupé, gli 8 Slam, i mitici calzoncini di jeans, l'Edipo irrisolto con papà Mike Ahassian (pugile iraniano), le metanfetamine e la positività al doping insabbiata dall'Atp nel '97, quando questo ex ragazzo infelice era la vedette più popolare del circuito e, come tale, andava tutelata. Oggi Andre, oltre che monumento a se stesso come tutti i grandi rimasti piccoli, è marito (di Steffi Graf), papà (di Jaden e Jaz) e filantropo: attraverso la sua fondazione, con l'aiuto degli sponsor e delle istituzioni sulle quali esercita una notevole influenza, dal '94 aiu-/ ta poveri, disadattati e, soprattutto, bambini. Il tema che, affrontando con voce bassissima ai confini con l'udibile, spesso lo commuove alle lacrime. Chiede di partire da lì. «Dopo il tennis, per me, è venuto il tempo di dedicare tempo agli altri (slogan dei suoi orologi, ndr). Nel 2001, a Las Vegas, ho aperto l'Agassi College Preparatory Academy ma l'idea, adesso, è allargare il progetto a tutti gli Usa e inaugurare 75 scuole nei prossimi anni». Sorride, le mani in grembo. L'infanzia difficile, l'enorme pressione paterna perché diventasse numero i del mondo, la cultura di cui non si è potuto dotare: c'è di certo di tutto un po' nel riscatto sociale che Agassi sta perseguendo con la caparbietà con cui a 8 anni rispondeva ai colpi della macchina sparapalle, aiutare il prossimo per aiutarsi, fare del bene per sentirsi bene, «restituire un po' del tanto che ho avuto», come dice sommesso, asciugandosi gli occhi sotto l'unico sopracciglio nerissimo. Quello, almeno lui, uguale a vent'anni fa. Funzionale al progetto, la signora Agassi, nata Graf a Mannheim (Germania) dieci mesi prima del marito, cui ha portato in dote 22 titoli Slam: «La mia grande, quotidiana, fonte d'ispirazione: uno dei motivi per cui sono grato al tennis è avermi permesso di incontrare Stephanie», sussurra, calcando l'accento su quel nome di battesimo, e non d'arte, che fraulein ha esportato in Nevada, dentro la sua nuova esistenza. Ecco, il tennis. L'origine del tutto, il motivo che ha portato Andre Agassi su questo divano, in questa città dove nel '99 conquistò la terra rossa del Roland Garros in parallelo alla futura moglie. Vogliamo parlarne? Andre, consenziente ma non entusiasta, prosegue. «E cambiato tutto molto in fretta. Ho visto Federer-Djokovic a Parigi e mi è sembrato un videogioco. Nole vincerà presto uno Slam, Nadal ha ancora tanto da dare ma Roger resta la migliore pubblicità per questo sport che ho molto detestato da giovane e con cui oggi ho fatto pace, perché mi ha dato le mie scuole e la mia famiglia». Andre, senti... «So cosa stai per chiedermi: no, il tennis non mi manca. Non mi mancano la competizione, l'allenamento, i viaggi, la programmazione, il poco tempo libero. Però vorrei dirti che di tennis ne capisco ancora qualcosa: quest'anno avevo pronosticato la Schiavone in finale-bis a Parigi con due mesi di anticipo!». Peccato abbia perso... Sospira: «Ognuno, nella vita, ha la sua missione».
Marco De Martino, il messaggero del 20.06.2011
Eddie Seaward è un uomo soddisfatto. II giardiniere capo di Wimbledon ha detto che il clima molto british di questi giorni aiuterà, che i selezionatissimi semi di Perennial Reygrass stavolta erano di livello veramente eccezionale e che l'erba tagliata a otto millimetri reggerà senza problemi alle sfide lunghe quattordici giorni. Perché oggi nella gotica e umida Inghilterra, all'indirizzo più spirituale e carnale del tennis, Church Road, dieci fermate di metropolitana da Londra viaggiando verso sud, si apre il torneo più antico, famoso, fatato e stregato del mondo, l'unico che ti può cambiare la vita, l'unico che ti lascia senza fiato, perché vincere qui è diverso, come Montecarlo per la F1, come il Grand National di Liverpool per un fantino, come San Pietro per un cattolico, emozioni troppo forti. Ore 14 sull'attiguo meridiano di Greenwich, Rafa Nadal contro il trentatreenne Michael Russell from Detroit, Michigan, Usa, come sempre il detentore del titolo e il suo sfidante che mettono piede per primi su un prato mai più calpestato da essere umano nei dodici mesi prima. Wimbledon è l'unico posto al mondo dove il numero 91 del mondo è felice di essere sorteggiato al primo turno contro il più forte di tutti perché potrà raccontare di aver giocato su un campo magico e puro, quasi non terreno e in un clima vagamente da Messa. Già, perché la sensazione è proprio questa, a metà tra il mistico e il pagano, a parte i 13.025 euro che ingolla chi becca al primo turno, contro l'assegno da 1.245.875 euro che incassa il vincitore. Verde e viola sono i colori di Wimbledon e il verde è un ottimo sfondo per imprese e drammi sportivi: Laver ci ha costruito sopra i suoi due Grandi Slam; Rosewall ci ha buttato dentro quattro drammatiche finali tutte perse, l'ultima a vent'anni di distanza dalla prima, un record capovolto e pazzesco; Borg e McEnroe nel 1980 ci hanno giocato una delle partite più belle di sempre; ma è dal 1877, dal primo vmcitore Spencer Gore, che Wimbledon crea e distrugge, che manda in cielo o spedisce all'inferno, perché come disse una volta Lendl «avrei dato tutta la mia carriera per vincere a Wimbledon e invece niente». Quest'anno è l'edizione numero 125. Federer vuole il settimo sigillo per agguantare il record di Pete Sampras e di tale William Renshaw vincitore a cavallo dei giurassici 1881-1889. Nadal per restare numero 1 del mondo deve per forza vincere come un anno fa e sarebbe il tris. Djokovic per saltare sul trono ha bisogno di una finale e chissà, quest'anno ha vinto 41 partite su 42, potrebbe anche riuscirci. Mentre il quarto dei Fab Four è lo scozzese Murray, come sempre in queste due settimane schierato nella nazionale di San Giorgio tanto per provare a rivivere il sogno del vecchio Fred Perry, ultimo britannico a vincere il torneo maschile di Wimbledon nel 1936, la cui statua di bronzo troneggia davanti all'ingresso del club. Quest'anno fanno 75 anni. Pronti i cuscini rossi nel Royal box dove di certo arriverà Pippa e marito; pronti duchi, lord, le fragole con la panna, le file, l'esaurito e i bagarini; pronte le donne con il ritorno delle panterone Williams e con la Sharapova favorita. Da un anno c'è il tetto traslucido sul centrale, quindi speriamo che piova tanto
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