Quattro inviati e un fotografo raccontano i quartieri in un percorso lungo cinque settimane che dall'estremo nord, est, ovest e sud porta fino a piazza Gae Aulenti
Vivevo ancora all'Isola e quella mattina di inizio autunno del 2011 c'era il tipico sole delle ottobrate milanesi, l'ultimo caldo prima dei rigori di Monti. Accompagnavo un amico spagnolo, ospite per un paio di giorni. Diretti verso il centro città che non aveva mai visto, scendemmo da via Pepe verso la stazione Garibaldi, imboccando il passaggio al binario 20 per sbucare dall'altra parte. Del grande cantiere che stava ridisegnando Porta Nuova, l'unico profilo già ben disegnato era quello della Torre Pelli, poi Unicredit. Uno scheletro grezzo sopra cui stava volando un elicottero che si trascinava un peso pericolante, da piazzare sull'esile guglia per completare in altezza l'edificio. Al contrario di noi che eravamo finiti lì per caso, almeno un migliaio di persone si erano date appuntamento per assistere alla delicata posa aerea del pezzo. Una manovra che per oltre un'ora tenne inchiodate intere famiglie. Quando finalmente si riuscì a consegnare agli operai sulla cima della torre il pennone, scattò un fragoroso applauso. Poi accadde una cosa che da allora non avrei più visto se non per ragioni calcistiche nel 2012, l'ultima volta degli azzurri in finale agli europei. Sulla cima della guglia venne issata una bandiera italiana e la folla salutò il vessillo estraendo dei piccoli tricolore di carta, distribuiti gratuitamente prima che io e il mio amico, Ivan a proposito, arrivassimo lì. Quel minuto gesto patriottico mi infastidì ricordandomi la politica, ricordandomi la fiducia malriposta negli uomini che avevano governato per quasi vent'anni per poi abbandonare la nave qualche mese prima, nell'estate del 2011, tra i marosi dello spread. "Ma sono fantastici i milanesi" mi sorprese Ivan. Avevo torto e avevi ragione tu, Ivan. Erano fantastici con le bandierine e sono fantastici oggi mentre salgono le scale mobili della collina Aulenti e arrivati in alto scrutano nella fontana l'est come dopo l'ascensione di una vetta si misura la fatica dell'impresa LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
"Arrivare a Gae Aulenti" è un appunto che mi ha fatto compagnia in questi mesi, mentre raccoglievo informazioni, notizie, biglietti da visita, cataloghi d'arte, libri, storie. Sulla mia scrivania ho messo anche una bottiglietta di acqua benedetta, che ho acquistato durante la tappa numero diciassette, nella Chiesa di Santa Maria alla Fontana. Nelle ventinove puntate su strada, più questa, che nascono da suole delle scarpe consumate e "appostamenti", abbiamo incontrato curatori, bibliotecari, libraie, occupanti di scuole, titolari di pompe funebri con zoo, giocatori di bingo, giardinieri egiziani, le comunità straniere - il pane che ci hanno offerto gli Eritrei - , archivisti, ballerini di swing, chef e baristi, negozianti che si sono salvati dalla crisi, turisti che portano fiori sulla tomba di Manzoni, giovani e anziani, uffici stampa e un conte scrittore che è apparso e ci ha detto: "La prossima volta magari passiamo un po' più di tempo insieme", prima di sparire dietro le porte brandizzate del suo bellissimo museo azienda. Dal trentanovesimo piano di Palazzo Lombardia, sede della Regione, al livello meno due sotto viale Pasubio per l'Archivio della Fondazione Feltrinelli: è stato un lungo viaggio. Siamo entrati a Casa Testori a Novate Milanese, prima tappa del reportage, abbiamo proseguito con la Comasina, dove un signore ci ha detto di non avere mai sentito parlare di Vallanzasca, per poi avvicinarci luogo dopo luogo, racconto dopo racconto al centro della Milano che cambia, battendo a tappeto la città. La città inizia e non finisce in periferia, ci sono molte presunte periferie che danno dei punti al centro, così come il centro della Milano attuale, con le sue ossessioni - cibo, verde, altezza, bellezza - , è il cuore pulsante di una capitale finalmente internazionale. Finisce qui, non finisce qui. Lo scopriremo solo vivendo, narrando sempre di più la metropoli dove tutti oggi vorrebbero stare LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Capita di passare per mesi, anni, da uno stesso posto, di percorrere quotidianamente la medesima strada, di frequentare un bar, un negozio, un cinema, di lavorare in un identico ufficio. Capita nel vivere in una casa, persino nel convivere con una persona. Una mattina ci svegliamo strano con negli occhi una luce di una potenza mai avuta. D'improvviso notiamo piccole cose, particolari mai osservati prima. È un effetto straniante, uno stordimento che ci fa camminare sopra un tappeto di nuvole. Abbiamo vissuto tutto di fretta. Siamo stati alla superficie delle cose, delle anime. E non avevamo capito nulla. Milano l'hai capita quando catturi la città in una posa fotografica, ne ritagli un'immagine che racchiudi in un portaritratto di materiale buono e riponi con cura sul comodino accanto al letto, -la foto di una persona cara-, di cui tu possiedi l'immagine, ma a cui appartieni, totalmente. Ho attraversato Milano, partendo da Ovest con i piedi immersi nell'erba umida della campagna di Baggio, passando dal puzzo degli incendi soffocati delle torri bianche di via Quarti all'aria rinfrescata dalla fontana che possiede il centro di piazza Gae Aulenti e se ne sta come un minuscolo mare ai piedi di una scogliera stralucente che scala il cielo. Milano l'ho attraversata con i miei occhi e con i miei sensi, al mio Ovest ho aggiunto l'Est, il Nord, il Sud, e davvero ho infilato le tessere in un mosaico che è diventato un quadro. L'ho appeso al muro e c'ho visto un quadro di famiglia, ho colto particolari che per anni mi erano sfuggiti. Ho capito che un posto diventa il Posto quando non lo possiedi, ma sai di appartenergli. La magia vera di Milano è questa, sa legarti a essa, in senso buono, ti fa sentire parte di essa LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Di chi è Milano? A regola, dei celti che l'hanno fondata. Oppure degli Sforza e dei Visconti. O spagnola, austriaca o di Napoleone cui la città si è sentita in dovere di regalare apposito arco di trionfo. È stata la città della Resistenza, dei socialisti, del berlusconismo. Del " mariuolo" Mario Chiesa ma anche di Mani pulite. Basta però attraversarla a passo d'uomo da Chiaravalle fino ai grattacieli di Porta Nuova, dalle cicogne al Parco Sud fino alla movida notturna dell'Hollywood e alla spesa radical- shop di Eataly, per capire che la città è padrona di se stessa. E come ogni struttura complessa, funziona grazie alla fatica collettiva di tanti organi che lavorano insieme. C'è il cuore di chi organizza le squadre di calcio per i migranti in cerca di un futuro nel dormitorio di viale Ortles. C'è il cervello e la creatività iper energetica dei ragazzi che inventano i lavori del futuro nel capannone dove sono stati stampati I promessi sposi. C'è il sangue offerto dai donatori al Policlinico, la razionalità - a volte al limite del cinico - delle banche della City meneghina. Ci sono le vetrine luccicanti dei negozi in Galleria dove un metro quadro in affitto costa un milione, sorvegliate dall'alto da una ciurma di gatti randagi neri ( tra cui alcuni acrobati a tre zampe) che vivono liberi sulle volte del Mengoni. Il mix, in questo momento, funziona. Milano sta bene, genera ricchezza e lavoro. Può interrogarsi su quale futuro vuole, se scoprire o no i Navigli, cosa mettere in zona Expo, come far crescere le proprie università. Un flusso di energia che negli ultimi anni ha preso una direzione: l'alto. La vecchia Ciribiciaccola di Chiaravalle è il passato. Il futuro sta in Gae Aulenti: le torri di Cesar Pelli e della Regione, il "vecchio" Pirellone, la vista sui due grattacieli di Citylife e sul moncone dove sta nascendo lo "Storto", il terzo della serie. Il rischio a salire in quota, ovvio, sono le vertigini LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
"Arrivare a Gae Aulenti" è un appunto che mi ha fatto compagnia in questi mesi, mentre raccoglievo informazioni, notizie, biglietti da visita, cataloghi d'arte, libri, storie. Sulla mia scrivania ho messo anche una bottiglietta di acqua benedetta, che ho acquistato durante la tappa numero diciassette, nella Chiesa di Santa Maria alla Fontana. Nelle ventinove puntate su strada inclusa questa, che nasce da suole delle scarpe consumate e "appostamenti", abbiamo incontrato curatori, bibliotecari, libraie, occupanti di scuole, titolari di pompe funebri con zoo, giocatori di bingo, giardinieri egiziani arrivati in Italia nelle condizioni peggiori, le comunità straniere - il pane che ci hanno offerto gli Eritrei - , archivisti, ballerini di swing, imprenditori-chef specializzati in ramen, baristi, ristoratori che hanno avuto successo, negozianti che si sono salvati dalla crisi con i rullini, milanesi, turisti che portano fiori sulla tomba di Manzoni al Monumentale, turisti ovunque, un bambino di undici anni in un parco che parla come un adulto, giovani e anziani, uffici stampa e un conte scrittore che è apparso e ci ha detto: "La prossima volta magari passiamo un po' più di tempo insieme", prima di sparire dietro le porte brandizzate del suo bellissimo museo azienda. Dal trentanovesimo piano di Palazzo Lombardia, sede della Regione, al livello meno due sotto viale Pasubio per l'Archivio della Fondazione Feltrinelli: è stato un lungo viaggio. La città inizia e non finisce in periferia, ci sono molte presunte periferie che danno dei punti al centro, così come il centro della Milano attuale, con le sue ossessioni - cibo, verde, altezza, bellezza - , è il cuore pulsante di una capitale finalmente internazionale. Finisce qui, non finisce qui. Lo scopriremo solo vivendo, narrando sempre di più la metropoli dove tutti oggi vorrebbero stare LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Attraversando Milano, da qualunque dei suoi lembi estremi, ti muovi nella meraviglia di una scoperta che è sempre più fantasmagorica di quella precedente. Una molla tanto compressa che ti lancia nello spazio infinito, e la velocità cresce, la tensione aumenta. E non si può capire davvero Milano se ci si ferma all'ultimo traguardo che ha raggiunto. Il traguardo di Milano è sempre quello che viene dopo, che non è un traguardo casuale, è un progetto: ideato, concluso e sostituito da uno nuovo. Milano è una megattera che solca gli oceani, incurante di un'Italia parolaia che rischia di affogare in uno stagno. Eccoli i marinai, escono a frotte dall'Antica Trattoria della Pesa, s'incontrano in mezzo alla sabbia con quelli che escono dall'altrettanto Antica Osteria Cavallini, parlano a voce alta di isole meravigliose a latitudini caraibiche. Litigano che è ovvio che sono ubriachi. E non ho il coraggio di chiedere a loro dove sia il mare. Cammino più piano, mi fermo e allungo il collo dietro via Maroncelli. No, ancora non si vede. Faccio lo stesso in via Bonnet, e anche lì solo rena nera a forma di strada. Ma ormai è vicino, il salmastro è impastato nell'aria, che un po' sa pure di polveri sottili. A piazza XXV Aprile mi siedo, mi godo il trionfo, in fondo a corso Como c'è un'isola luccicante, con gli alberi piantati in cielo LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
La storia di Milano, come le rocce, è a strati: sotto il nuovo che avanza, c'è l'anima di un passato fatto di ricordi. E per i geologhi della memoria, la miniera più ricca della città sono le ex-Varesine. Il posto è sempre lo stesso. L'immagine dipende dall'età di chi ne parla. Per i ragazzi di oggi è una storia di grattacieli, smartphone, discoteche e movida. Per i più vecchi quel terrapieno era la stazione ferroviaria dei primi weekend post bellici meneghini, con i treni che partivano sferragliando sui binari verso Varese e i laghi, prima di essere trasferiti a Porta Garibaldi. Per i cinquanta-sessantenni invece le ex-Varesine vogliono dire solo una cosa: il Luna-Park. Tanti sabati con i genitori (o tanti giorni feriali quando si bigiava scuola) passati tra l'ottovolante, le palline da ping-pong che rimbalzavano tra i vasetti dei pesci rossi e la pista dei gokart che hanno segnato una generazione. Quel parco-divertimenti, come certe stagioni della vita, è durato poco: 25 anni. La data di nascita è il 1972 quando un gruppo di giostrai ha scalato il mucchio di macerie lasciato dal trasloco di vagoni e locomotive e ha preso possesso del terreno. In poche settimane sono spuntati la ruota girevole, le montagne russe, il tunnel degli orrori, il galeone spagnolo, i tiri a segno dove si vincevano quaglie vive. E nessuno - nemmeno le ferrovie proprietarie dell'area - è riuscito più a mandarli via. Si entrava, come in una chiesa, salendo una ripida scalinata di metallo con al culmine l'insegna "Luna Park Varesine" al neon rosso. Poi ci si perdeva tra autoscontri, calcio in culo e labirinto degli specchi LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Di fronte al colosso, strane associazioni fanno ritornare in mente i manifesti che tappezzavano i muri 33 anni fa. In particolare, quando sono circa le 18, la strabiliante gibigiana Unicredit illumina lontano corso Garibaldi di un tramonto artificiale. Non un vero sole, ma uno spettro filtrato come la luce di un'eclissi. Il fascio si posa fino agli aperitivi di largo la Foppa ai lembi di Brera, tra i calici dei clienti dei "cinesi" e del Radetzky. Qui, dove qualcosa del malevolo spirito yuppie della Milano da bere del 1985 ancora perdura in certi colletti e in certe scarpe a punta, il finto crepuscolo per qualche istante ogni giorno batte su di una parete che oggi è dipinta a spese e guadagno di Gucci. Nel 1985 invece la parete era stata presa dal Psi e tappezzata di manifesti che chiedevano di votare No al referendum sulla scala mobile, scongiurando l'abrogazione del decreto voluto da Bettino Craxi l'anno precedente. Da viale Sturzo la prima cosa che si rivela del massiccio Aulenti sono le scale mobili che puntano al cuore del promontorio. Se da lontano ruba l'occhio la torre, da vicino è la stazza del complesso a esprimere magnificenza, come se dopo il Monte Stella la città avesse finalmente visto sorgere una seconda altura. Un poggio di pietra dove la scala mobile è stata sistemata come una svolta sociale. Al Monte Stella dovete faticare, qui potete salire tutti. Una nuova politica d'apertura che si infrange nella burocrazia dell'architettura. E come accade alla stazione Centrale, le scale non hanno un approdo certo. Desiderando arrivare in piazza Gae Aulenti c'è chi trova l'Esselunga mentre altri ormai carichi di sporte gialle spuntano alla luce cercando automobili che non vedranno più, perse nel buio del garage. Bisognava forse votare No alla scala mobile, farsi bastare gli ascensori, affrontare la fatica di solide scale come il giusto prezzo per la vista LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Porta Volta, fra le mura antiche del Dazio e il giardino della memoria dedicato a Lea Garofalo, c'è un triangolo di terra gialla coperto di sterpaglie, chiuso da una recinzione approssimativa. Si direbbe un posto buono per i bisogni degli animali domestici in uscita libera. È un punto d'osservazione unico, un tesoro dei sociologi che scorre a ridosso della cinta dei Bastioni. Un punto di chiusura fra due mondi, meglio: il canale di collegamento. Giù ci stanno le salme illustri, al Monumentale. A destra e a sinistra i vivi. I cinesi che hanno portato un mondo nuovo a Milano se ne stanno oltre piazzale Baiamonti; i milanesi d'avanguardia sono collocati oltre via Volta. Se ci si piazza nello sterrato, le ginocchia si piegano, gli occhi si allargano stupefatti: c'è un bastimento trasparente che avanza, obliquo per la prua che cavalca le onde e un comignolo lucido e a punta che da dietro sfida il cielo. È un transatlantico, ma non di quelli bugiardi, che andavano a picco, di inizio novecento. C'è una nave di vetro in via Pasubio, cova la modernità mondiale. Microsoft, che è modernità e modernità. Cova la modernità milanese. Feltrinelli, che è modernità e tradizione. Milano, sta al passo dei tempi tenendo a bada il cinismo dei tempi, conservando quel lembo di umanità che è buono a marcare differenze. È un nave grande, quella della Fondazione Feltrinelli, di quelle così alte che si vedono da lontano, prima di arrivare al porto, che sai che c'è perché è lì che un mondo che galleggia può stare, ma non si capisce quale sia la strada che vi ci porta LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Milano, si sa, è una città di pianura. Dove l'unica montagna degna (vagamente) di questo nome ce la siamo costruita da soli con le macerie dei bombardamenti della seconda guerra mondiale. Battezzandola poi - un po' per understatement, un po' perché il risultato non era granché - "montagnetta". I ciclisti però, lo sanno bene: la vita di una metropoli, anche orograficamente perfetta per le due ruote come la nostra, non è mai un percorso piatto. Ci sono i momenti sì e quelli no. Le discese ardite (dove non si deve nemmeno spingere sul pedale) e le risalite dove tocca dannarsi anima e muscoli. I Rossignoli, uno dei nomi storici della bicicletta meneghina, l'hanno provato sulla loro pelle da qualche generazione. Il capostipite Giorgio è sbarcato in città (da Pavia) nel 1900 aprendo il primo negozio. Aveva il fiuto per gli affari. E sfruttando il momento in discesa, ha spedito i tre figli in giro per la metropoli a fondare altrettanti punti vendita, come in un franchising ante-litteram. La guerra e le bombe hanno distrutto tutto. "Ero a militare, quando sono tornato ero senza casa, non c'era negozio, non c'era niente", ha ricordato ai tempi Sergio, figlio di Ettore e nipote di Giorgio. Che fare? Tocca pedalare, ovvio. "Ho costruito sulle macerie in Corso Garibaldi perché attorno non c'era più niente". All'inizio è stata dura. Poi è arrivata la discesa. La Milano che ripartiva nel dopoguerra lo faceva spesso su due ruote. Dopo le bici sono arrivati i ciclomotori come quello mitico della Rossignoli con il motore "Alpino" LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Corso Como, la via pedonale dello shopping e della movida ai piedi dei grattacieli, specchio della crisi non di Milano, che sta vivendo un periodo d'oro, ma dell'Italia nel suo complesso. 10 Corso Como, che presidia la zona da ventotto anni, è continuamente al centro di voci che danno il concept store sull'orlo del fallimento. Un contenzioso con il fisco risolto con la rateizzazione del dovuto (si parla del mancato pagamento di tasse per oltre 4 milioni di euro) e il cambio di proprietà dell'immobile hanno messo in pericolo il progetto realizzato da Carla Sozzani a partire dal 1990. È nata prima la Galleria, specializzata in fotografia, poi un anno dopo è arrivato un negozio di moda e design e a seguire la libreria, un ristorante e un caffe? in giardino e un hotel di tre stanze. A marzo di quest'anno i dipendenti hanno ricevuto una comunicazione nella quale si dice che l'affitto è stato rinnovato per sei anni più sei quindi, in teoria, per almeno altri dodici anni questa che è anche un'attrazione turistica dovrebbe restare al suo posto, laddove c'erano un'autofficina e un fruttivendolo con, al piano di sopra, una tipografia e un magazzino della Coca-Cola. Possono convivere cultura, arte e commercio? È la sfida che si pone questa somma di spazi LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Le bandiere d'Europa, d'Italia e di Fs si rianimino pochino anche col vento, appartenenti a una specie di biancheria quasi fossile, appesantita dagli anni di servizio che ne hanno consumato i lembi. La luce quaggiù filtra sempre grigia in una conca che è un unico milanese. Né sotto la strada né sopra, così è la fossa intermedia della Stazione Garibaldi, un limbo, un mistero della città che cambia, che sale tutt'attorno ma che proprio non riesce e sollevare Garibaldi dalla depressione in cui giace. Appostata in un nascondiglio, Garibaldi difende il proprio ruolo minoritario, sempre un passo dietro a Centrale. La serie B ferroviaria che profuma di Porto Ceresio, Lodi, Carimate, a volte Novara. Ci sarebbe l'alta velocità che però presa in Garibaldi sembra meno rapida, rallentata come se nella conca toccasse scontare un ritardo fisso di mezz'ora rispetto al resto del mondo, un fuso orario della tristezza. In Garibaldi è fuggita anche la farmacia sempre aperta che delle stazioni cittadine è il fondamento d'utilità. Oggi c'è solo un grande cantiere vuoto di medicine. E non c'è neppure il bar alla buona, brutto ma schietto, che se non altro rende umane le stazioni di provincia, quei bar che ad esempio in Liguria hanno sempre la focaccia migliore e in Sicilia l'arancino. Ma chi ricorda che cos'era viale Sturzo prima tutto cambiasse, ha negli occhi la periferia che questo luogo a lungo è stato, la desolazione di un indefinito stradale che nessun pedone sapeva neppure come attraversare. La Stazione Garibaldi è in fondo un monito necessario, e mentre ogni cosa attorno si merita applausi, fa presente alle generazioni future e a quanti si erano indignati più per pregiudizio che per cognizione di causa di fronte agli edifici che hanno sanato le piaghe, che una volta qui era tutto come Garibaldi, tutto un limbo LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
C'era Bombay l'elefantessa con gli occhiali. Polivalente artista capace di star ritta su un piede solo sopra un piedistallo e di suonare un organetto di Barberia. La scimmia Giovanni. L'orso polare chiuso in una gabbia troppo piccola, come i leoni. I pesci fatti su nel giornale per foche e pinguini, le giraffe all'ingresso che - se eri fortunato - allungavano il collo per provare a leccarti la faccia. Detto oggi - con i capelli imbiancati e Milano trasformata - pare un secolo fa (e in fondo è davvero così) e sembra incredibile. Ma è vero: la giungla dove i baby- boomers meneghini nati attorno agli anni ' 60 hanno forgiato la propria educazione naturalistica nell'era pre NatGeo era in zona 1. Precisamente ai giardini pubblici di via Palestro dove nell'angolo verso Piazza Cavour c'erano l'Africa e il Polo Nord, l'Amazzonia e il delta dell'Okawango, tutti chiusi nelle gabbie e nelle improbabili piscinette con le piastrelle azzurre dello zoo di Milano. Il buon senso e il rispetto per le povere bestie (erano 500 nel ' 66) stipate in pochi metri quadri hanno avuto il sopravvento sull'ingenuo stupore dei bambini di allora. Nel 1991 la struttura ha calato la saracinesca, gli animali sono stati regalati ad altri zoo, compresi il leopardo Pooma e la giraffa Luama, gli unici cuccioli delle loro specie che possono vantarsi di essere nati all'ombra della Madonnina. Una cosa però non è cambiata ai giardini di via Palestro: tra ginko biloba e olmi hanno preso dimora con il piglio dei padroni di casa una decina di pappagalli verdi della specie Amazona Aestiva LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
La "milanese imbruttita" va in palestra e si fa un selfie, scrive messaggi sul tapis roulant e di sera si ingozza perché ha fatto sport. Entri da Eataly, ex teatro riconvertito in "cattedrale del cibo", in piazza XXV Aprile, nel cuore della Milano che cambia, e ti viene fame. Assaggeresti tutto. Dall'acqua tonica con il chinotto del presidio Slow Food di Savona alla pizza alla pala. L'impasto contiene farine biologiche del Mulino Marino, nelle Langhe, il sale grigio integrale della francese Guérande e il lievito madre di Eataly. Sopra ci si può mettere di tutto. La versione più gettonata prevede una burrata intera aggiunta a crudo. È un paradosso che nella città ossessionata dalla forma fisica tutti impazziscano per un posto dove sarebbe impossibile stare attenti alle calorie? O è una liberazione? C'è anche il fattore moda certo. Gli chef stellati più famosi dei calciatori, i programmi di cucina, il proliferare di esperti di cipolla rossa di Tropea e di impiattamenti. Nei numerosi appostamenti per raccontare questo che non è solo un negozio dove si vende cibo - ci sono anche libri, biciclette-coltello per tagliare le fette di pizza, utensili e una filosofia, dietro - , che non è solo un insieme di bar e ristoranti per consumare quel cibo, abbiamo capito il segreto del suo successo. Eataly ha reso più democratica una parte di Milano che fino a poco tempo fa era associata a cliché ormai superati. Ora la movida si fa a tavola. La funzione più primordiale che ci sia, nutrirsi, ci riporta alle cose che contano davvero nella vita: un pezzo di pane e qualcuno con cui condividerlo LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Quando inaugurò nel 2016, il dubbio che la Mela Reintegrata di Michelangelo Pistoletto sarebbe stata scambiata per altro da un'opera d'arte era venuto. "Da quando hanno aperto davvero l'Apple Store a Milano è pieno di gente che sbarcando si convince sia qui e non in piazza Liberty, a decine girano attorno alle mela scattandosi selfie e poi ci chiedono dove sia l'ingresso di 'sto benedetto store" confermano al chiosco e biglietteria pullman di piazza Duca d'Aosta. La mela bianca alta otto metri e pesante undici tonnellate è un logo globale invincibile e il morso rattoppato fa pensare a una trovata di marketing, certo non alla riconciliazione tra il naturale e l'artificiale. Il gran pasticcio della grande mela somiglia a quello della stazione Centrale di cui decora il sagrato. La Grand Central di Milano trasformata dalle scale mobili in un quadro di Escher. La magniloquente pompa magna della facciata larga duecento metri e coronata dai carri alati, a seconda della luce e dei momenti dell'anno, può sembrare bellissima o spaventosa così come gli arrivi e le partenze sanno essere lieti e tristissimi. Ibrido unico nel suo genere di liberty, art decò, suggestioni orientali e influssi della scuola viennese, lo stile del progetto di Ulisse Stacchini fu definito assiro- milanese dai detrattori. Ha vinto alla fine la stazione Centrale che sta ancora lì, assira e ormai molto milanese, mentre risuona l'ultima chiamata al binario 13 per chi è diretto a Zurigo. Ma nessuno può correre anche volendolo, bisogna attendere che i tappeti mobili facciano il loro corso spuntando prima o poi lassù, dove intanto al 24 parte con 30 minuti di ritardo il regionale per Arquata Scrivia LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Piazza della Lega Lombarda è un punto d'incontro fra il centro vero di Milano e un centro fuori dal centro che è la zona Sarpi. Sta fra una via che sa di passato, Montello, e una via che anche se viene dal passato corre in parallelo col tempo, Moscova. Dalla piazza si può scegliere se entrare nella pace del Parco Sempione, nel caos delle vie del commercio o nella bellezza che porta al cuore antico della città. Scendo in giù, fino alla ricercatezza di largo La Foppa, ed è una deviazione che faccio. Ho viaggiato per quasi un mese, attraversando la città, l'ho fatto a piedi, partendo da ovest, da un quartiere che è ancora villaggio, e sa di campagna, Baggio, mi sono tenuto vicino alla linea rossa della metropolitana, senza mai salirvi. È stato un viaggio nelle anime diverse della città, che costituiscono l'anima di Milano. È stato un viaggio dell'anima, che bisogna fare per comprendere lo spirito del luogo. Milano, nonostante le dimensioni antropiche ed economiche, ha avuto la forza di mantenerlo un proprio spirito. È disegnato sui muri dei propri edifici, da quelli scrostati dell'Aler a quelli pastosi delle palazzine liberty. È disegnato nei volti dei milanesi, che sono tutti doc, quelli nati in città e quelli giunti d'altrove. La zona di Moscova, La Foppa, è glamour, ci si viene per gli aperitivi, gli eventi fuori salone, per sentirsi milanesi arrivati LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Bellissima la sede, 2.700 metri quadrati in viale Pasubio firmati dallo studio svizzero Herzog & de Meuron, la libreria Feltrinelli con i libri in lingua originale e i quaderni Gallimard, la caffetteria, il dehors, la sala lettura della biblioteca con la bandiera rossa della Comune di Parigi. " In tutto il mondo ce ne sono tre " , dicono. Ma è al piano meno due che la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli custodisce i suoi tesori. Porte allarmate, telecamere in ogni angolo, temperatura tra i 18 e i 22 gradi, accediamo all'archivio/ cassaforte della Fondazione con Vittore Armanni, responsabile del patrimonio. La prima cosa che colpisce: l'odore della carta, più penetrante rispetto a quello dei testi contemporanei. " Ma non è né un bunker né un ambiente polveroso " , fa notare Armanni. " Gli studenti del master in Public History, che organizziamo noi, gli appassionati, chiunque sia interessato può chiedere di consultare il contenuto dell'archivio". Il suo libro preferito è il sesto volume della prima edizione dell'Encyclopédie di Diderot. Copertina in pelle di vacca, resistente al tempo, leggibile. Nella sezione di storia naturale: "Fig. 1. Le Lion. Fig. 2. Le Tigre." con i relativi disegni e il volto della seconda che la fa sembrare un cucciolo di gatto LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Milano, la città dove l'immagine è quasi tutto, ha - su questo fronte - un vecchio scheletro nell'armadio: l'animale simbolo. Le altre metropoli italiane, quando si è trattato di sceglierselo, hanno puntato alto: Roma ha preso una fiera lupa. Torino un nobile e virile toro rampante. Venezia si è accontentata - si fa per dire - di un leone alato. C'erano ancora liberi la tigre, il cavallo, l'orso, la volpe, volendo persino i liocorni. Milano ha voluto andare controcorrente e sfidando l'estetica ha pescato la più improbabile delle bestie: la scrofa semilanuta. A volersi trovare un'attenuante a tutti i costi, la bizzarra scelta non è proprio colpa dei milanesi. Il creativo autore del colpo di genio è Belloveso, stirpe reale celta. Gente che il cinghiale se lo portava stampato sullo scudo come fosse il coccodrillo della Lacoste. Nonno Ambigato, nel 600 a.C. l'aveva spedito a cercare colonie in Pianura Padana. E lui, fidandosi di un oracolo dell'epoca, ha deciso di fondare una città nel punto in cui ha trovato - appunto - una cinghialessa con criniera leonina. Quella scrofa che, volenti o nolenti, ci siamo portati indietro come simbolo per quasi 1.500 anni, come testimonia la sua immagine che dal 1223 (ma la scultura è di molto precedente) campeggia su una colonna del Broletto in piazza dei Mercanti. I Visconti, gente raffinata, hanno provato a porci rimedio. I brand a Milano sono una cosa seria. Girare il mondo sotto il vessillo di un suino - per quanto fiero e semilanuto - non è il massimo del look. E Baldovino ha sancito nel 1500 l'addio alla scrofa e il passaggio alla biscia. O meglio - visto che dalle nostre parti con le griffe si fanno le cose in grande - al Biscione. Quello che dal 1500 ha cancellato l'incidente di percorso celtico dai gonfaloni e dei marchi del made in Milano LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
La medusa è la tirannia, il fiore la gioventù ribelle, un volto nell'ombra la cospirazione. La strada di metafore patriottiche in forma di sculture lunga 38 metri scolpita da Pietro Cascella nel 1974 con la complicità di Vico Magistretti, porta a Giuseppe Mazzini. Il busto di bronzo dedicato al genovese che presagì l'Italia due anni dopo la sua morte e risalente al 1874, attende in fondo al sentiero. Un omaggio malandato e annerito all'ideologo della patria unita, della Repubblica, che qui tutt'attorno è piazza, alberghi, grattacieli, largo viale dal sentore autostradale. Il sogno della modernità verticale che oggi ha il volto di torri frondose è iniziato qui, in Repubblica, dove tra '54 e il '55 in contemporanea con le trasmissioni Rai in tv si presentarono i 31 piani della Torre Breda. Progettata da Luigi Mattioni con Eugenio ed Ermenegildo Soncini, i lavori furono diretti dall'ingegner Pio Capelli e all'inaugurazione si presentò in Repubblica il presidente della Repubblica in persona, Giovanni Gronchi, quello della preziosa svista filatelica color rosa. La Torre con aria condizionata e posta pneumatica fu detta dei ricchi e tutto quel salire suonò come una bestemmia. Si toccavano 116,25 metri ed era la prima volta che si superava la fatidica quota Madonnina, 108,5. La modernità di Repubblica era verticale ed era orizzontale a quota zero, come se le architetture dovessero fare da cornice alla civiltà dell'auto che in Repubblica poteva finalmente godere dello spazio necessario per ingorghi imperiali. Uno spettacolo che i pedoni contemplavano al riparo di generosi portici, quasi una novità a Milano che al contrario di Torino e Bologna e fatto salvo di Galleria e dintorni, non aveva mai davvero puntato sulle strade coperte LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
A Chinatown non c'è solo il cibo cinese, il Sarpi 50 sforna uno dei migliori cibi di strada di Milano, offrendo a giro un esempio delle cucine regionali italiane. Si può prendere un vassoio e portarlo al Parco Sempione, o su una panchina di piazza Gramsci. Prendo l'acqua e vado in un piccolo giardino pubblico, ha un nome pomposo Giardino comunitario della memoria, ed è dedicato a una grande donna, Lea Garofalo, morta perché ha voluto vivere libera. Uccisa da un orrido senso del possesso, da caverna. Vittima di mafia, ma di una mafia stracciona che per anni è stata insediata nella zona. Il giardino è carino, anche ben tenuto, ma è troppo evocativo per avere lo stomaco di consumarci un pasto. Abbandono il vassoio sulla panchina, sotto lo sguardo più da preda che da predatore di un solitario giocatore di basket troppo esile per essere un atleta. Esco dal lato di Porta Volta, un cancelletto che si apre in una recinzione sormontata da bandierine triangolari, gialle, bianche, verdi che trasformano il luogo in uno stand da festa di paese, demodé pure questa. Mi prende un po' di depressione, non lo so spiegare, ma vorrei che quella povera donna fosse ricordata da un'altra parte. In un luogo che sia stato speranza LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Dal 1987 al 1994 governava in televisione la plancia della nave stellare Enterprise, famosa navicella di Star Trek, il capitano Jean Luc Picard. A interpretare il comandante di origine francese era Patrick Stewart, attore dalla calvizie esemplare come Yul Brynner e Telly Savalas e come loro diventato famoso cranio cinematografico. Quando il 22 maggio 2006 fu inaugurata la statua di bronzo dorato dedicata ad Indro Montanelli nei giardini che dal 2002 portano il suo nome, molti notarono la natura funebre del monumento o la scarsa somiglianza col grande giornalista. Per realizzare il ritratto, l'artista Vito Tongiani si era ispirato alla famosa foto scattata nel '40 da Fedele Toscani, padre di Oliviero, che ritraeva Montanelli seduto su di una risma di giornali mentre alla Lettera 22 batteva al volo un articolo da rapido cronista. "È come l'avessero gambizzato due volte" commentò la statua a caldo proprio Oliviero Toscani ricordando l'agguato delle Br teso nel giugno del '77 all'allora direttore de Il Giornale all'angolo tra via Manin e piazza Cavour. Il Montanelli di Tongiani non indossa il cappello al contrario del Montanelli della foto anni '40 ed è costretto a scrivere allo sfinimento sempre sulla stessa pagina rivolto alla monotonia di piazza Cavour. Quando però arriva il sole il primo pomeriggio, il cranio si illumina come una rivelazione e l'impermeabile d'oro senza bottoni può benissimo essere scambiato per la divisa di un ufficiale stellare LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
"Milano che banche che cambi", cantava Lucio Dalla. A ragione. Il cuore finanziario d'Italia batte sotto la Madonnina. E il suo ventricolo più delicato è il "miglio quadrato" - come lo chiama chi lavora lì - tra piazza Cordusio, piazza Affari, via Filodrammatici e la Ca de Sass di via Romagnosi. Un fazzoletto di città dove è stata scritta (nel bene e nel male) la storia economica del Paese, dove sono nate - e qualche volta bruciate - grandi fortune. E dove un pugno di istituti di credito gestisce ogni giorno da solo quasi duemila miliardi di risparmi, più del Pil dell'Italia. La mappa di questo forziere dorato ha - nell'iconografia ufficiale - un suo simbolo: Palazzo Mezzanotte, l'edificio che dal 1808 ospita la Borsa, ridotto ora - nell'era in cui gli scambi viaggiano via computer - a un guscio vuoto di rappresentanza. Con vista, per ironia della sorte, sul grande dito medio alzato verso il cielo installato da Maurizio Cattelan di fronte alla facciata, a memoria delle migliaia di risparmiatori tosati negli anni dagli squali dei mercati. Milano è però una città riservata. Dove gli affari si fanno in silenzio. La piazza, anche se si chiama degli Affari, non è luogo per questo genere di cose. Meglio un salotto. E quello "buono" per eccellenza è Mediobanca, il "campo neutro" dove le grandi famiglie tricolori hanno regolato dal dopoguerra i propri interessi. Da Montedison a Pirelli, da Telecom alla Fiat, da Comit a Generali, le stanze del cinquecentesco palazzo Visconti- Ajmi sono state testimoni di un risiko miliardario che ha scritto e riscritto mille volte la mappa del potere tricolore tra scalate, tradimenti e colpi di scena LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
La zona Sarpi oggi è un luogo gradevole da abitare, gli immigrati cinesi non fanno più paura come un tempo, sono alle prese con attività frenetiche che portano in città commercianti da tutta Italia, anche da fuori nazione, per riempire i negozi di roba asiatica. La via è stata riqualificata, ci sono residenze di pregio. È un centro a due passi dal centro, che vive una propria autonomia. Un polmone economico che porta aria a tutta Milano, mantenendo una dimensione umana. Alla fine gli immigrati hanno trovato un punto armonico, realizzando una convivenza sempre meno problematica. Anzi, oggi sono i cinesi a dare lavoro, ad altri immigrati, persino agli italiani, i loro commerci non sono soltanto gli ingrossi di abbigliamento, i ristoranti. È nata una generazione di uomini d'affari, che ha interessi nelle aziende, nell'immobiliare, che regge i rapporti con una madre patria che è diventata potenza economica mondiale. La Sarpi è una testa di ponte per andare nel resto d'Italia, i cinesi con attività nel quartiere abitano in tutta Milano. E Ting Sin Chiu aveva ragione, lui non era arrivato dalle campagne della Cina, veniva dalla prima e storica emigrazione cinese, giunta a Milano tra gli anni Venti e Trenta. Una piccola pattuglia di gente ricca e colta. Il suo negozio di pelletteria è un punto noto del commercio milanese. Quando i suoi connazionali cominciarono ad arrivare in zona, dondolava la testa e profetizzava: ne arriveranno tanti che non li potrete contare, e non allungheranno la mano per chiedere la carità, saranno loro l'economia della zona. Il bar Amico, di fronte a lui, fu il primo a passare di mano, e i milanesi storcevano il naso a essere serviti dai cinesi. Nei locali pubblici, oggi, i camerieri sono italiani LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
La Milano che cambia scopre il piacere di dedicarsi alle proprie passioni oltre che ai doveri e va al cinema di mattina. In una città dedita al lavoro chiudersi nel buio di una sala e vedere un film mentre gli altri sono presi dai mille impegni quotidiani ha un sapore trasgressivo, simbolo di una società in continua evoluzione. "Il fascino di un film visto nelle prime ore del giorno è unico", spiega Sergio Oliva, responsabile della programmazione del nuovo Anteo Palazzo del Cinema. "E riflette una impostazione completamente diversa della nostra vita. Tanti ormai lavorano seguendo dei turni, magari sono impegnati nel weekend ma sono liberi il lunedì mattina. Così come frequentano le nostre prime proiezioni mamme che aspettano il rientro dei figli da scuola, giovani e anziani, studenti accompagnati dai loro professori". La zona è quella della movida, piazza XXV Aprile, nel centro che meglio incarna il periodo d'oro della città, non distanti dalla meta finale del nostro viaggio. Una parte esclusiva di Milano, che però si apre sempre di più a tutti. "L'atmosfera delle 11 di mattina è intima, si ha la sensazione di assistere a una proiezione privata. Siamo più ricettivi, cogliamo meglio tutti gli aspetti dell'opera, oltre al vantaggio economico", ricorda Oliva. Il biglietto delle matinée costa 4,50 euro rispetto ai 9 euro della sera. Più di 5.000 metri quadrati, sale nelle quali si può anche mangiare, caffè letterario, Biblioteca dello Spettacolo con titoli del tipo Il paradosso sull'attore e una tendenza sempre maggiore, come tutta la città, ad adattarsi alle esigenze delle persone. " Di mattina possiamo selezionare i film anche in base alle richieste degli spettatori, purché garantiscano un numero minimo di presenze. Lavoriamo molto con le scuole, ma ci è successo anche di essere prenotati da un gruppo di trenta amici LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Jacopo ha 42 anni, è agente immobiliare. Quando passa in via Cappuccini al 9 di fronte al famoso giardino di Villa Invernizzi dove si possono sbirciare i fenicotteri rosa ritti su di una zampa sola come se la terra non valesse lo sforzo di una seconda zampa, lo assalgono i traumi dell'infanzia. "Io vivevo lì, all'11" dice indicando il balcone del terzo piano di un palazzo sospeso in posizione zenitale sopra lo stormo di volatili. "Fanno un verso che pare un kazoo, una trombetta. La notte capitava che tutti insieme decidessero di cantare, se così si può definire quello spaventoso coro animale, magari alle 3. E allora mio padre si affacciava e iniziava a dare di matto per ore. "Basta, per carità, basta!"". Nel mondo chiuso tra corso Venezia e corso Monforte, nella penuria di traffico e bar e con lo portinerie attrezzate da dogane sovietiche, è più facile incontrare fenicotteri che umani. "Oggi ci sono solo i compratori, qui in via Mozart c'è una casa da 450 metri quadri, terzo piano, a 4 milioni e mezzo. Diecimila al metro. Ma in effetti la civiltà che ha costruito Villa Necchi Campiglio non c'è più". I Necchi delle macchine da cucire, 4.000 metri quadri di giardino, una villa di quattro piani, 500 metri quadri l'uno. L'architetto Piero Portaluppi aveva ricevuto dai ricchi pavesi un solo mandato, cioè non badare a spese. Era il 1935, esterni razionalisti e interni art decò, la prima piscina riscaldata di Milano, il campo da tennis, il fumoir, la stanza detta con spirito monarchico della principessa perché nel dopoguerra fu riservata a Maria Gabriella di Savoia, la figlia colta dell'ultimo re d'Italia LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Cappuccetto Rosso entra nel Bosco (Verticale) e il "lupo" che trova è quello del desiderio, la voglia di trasferirsi subito lì, potendo. Le due torri che compongono l'opera, progettate da Stefano Boeri, realizzate da Manfredi Catella, sono le icone della nuova Milano, premiate e copiate in tutto il mondo. Uno dei pochi luoghi della città che costringe milanesi e turisti ad alzare gli occhi dallo smartphone per ammirare la cascata di piante e per spiare dentro le case. "Vivono molte persone famose qui?", chiediamo alla ragazza che ci accompagna in questa tappa del nostro reportage. "Sì". All'esterno ci sono signore magrissime con ballerine leopardate che portano a spasso cani minuscoli, dipendenti di Google che parlano in americano e fumano, una coppia di francesi che scrive cartoline e un bar ristorante bio che celebra l'armonia con la natura. C'è perfino un microclima migliore rispetto al resto della città. Tutto è rarefatto nel Bosco Verticale. Non c'è un suono, non c'è un odore. Da fuori è bellissimo. Dentro, di più. La lobby, arredata nei toni del verde, sembra l'ingresso di un albergo di lusso. C'è un'area fitness, dove gli abitanti del Bosco possono andare a correre digitando dei codici, facendosi riconoscere. L'ossessione di tutti è la privacy, come testimoniano le tende delle abitazioni, chiare o scure, comunque coprenti. I servizi per i condomini sono completati da una sala con cucina, che si può prenotare gratuitamente e usare per cocktail e feste private. Ci sono pure terrazze comuni, dalla vista spettacolare, per agevolare amori, amicizie, affari LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Il ritratto, visto oggi, è quello del milanese tipo: un gran lavoratore di successo, con un fondo di inspiegabile inquietudine tracimato in problemi di stress, ansioso di scappare fuori città appena possibile con l'impulso irrefrenabile di coltivarsi un orto pur abitando nel cuore di una metropoli. Lui, però, è un nome a sorpresa: il primo contadino urbano meneghino - precursore dei degni eredi di Orticola - è Alessandro Manzoni. D'accordo Renzo e Lucia, va bene le mogli (l'amatissima Enrichetta in primis) e i figli che correvano per le stanze della casa di famiglia in via Morone 1, due passi dal Duomo. Le vere passioni dello scrittore erano però altre: la campagna e la botanica. Coltivate nei ritagli di tempo tra i Bravi e Don Rodrigo nella speranza - mai riuscita davvero - di farne il suo vero lavoro. La passione, nel suo caso, non si discute. Appena poteva posava penna e inchiostro, si infilava un tabarro e partiva da solo a piedi da via Morone verso nord, con alla cintura l'inseparabile fiaschetta di Acqua di Lecco (l'aceto forte). Destinazione: le tenute di famiglia di Brusuglio, 11 km. in direzione Bresso, il buen ritiro dove s'inabissava tra piante e viti per dimenticare il logorio della vita moderna. Un contadino- letterato tutt'altro che sprovveduto - lavorava per superare le classificazioni botaniche linneane - ma forse un po' troppo visionario, come capita spesso quando i milanesi prendono in mano la zappa: ha provato a piantare il caffè a Lecco, ha perso una fortuna con i bachi da seta, tentato di produrre lo champagne per superare i francesi. Mostrando grande padronanza tecnica ma scarso buon senso agricolo LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
A Milano tutti sanno cos'è la Sarpi, anche fuori città: la Chinatown milanese. Quello che non tutti hanno chiaro è che i primi cinesi di Milano sono arrivati tutti dalla stessa zona della Cina, il Fujian e lo Zhejiang, province nel sud est. Un tempo quella terra era nazione, un regno meridionale retto dalla dinastia Ming, fatta fuori e colonizzata dalla dinastia Qing. Come al solito un sud unificato da nord, con la conseguenza di mandare in giro per il mondo a lavorare i fratelli cooptati. Gli emigrati cinesi di Milano erano la solita gente meridionale in cerca di lavoro e in città ne avevano trovato tanto. Si davano da fare come forsennati. Lavoro e piccole pause, piegando le ginocchia a sedersi su una sedia immaginaria per mangiare. Sono stati per anni un oggetto misterioso per gli italiani con i quali non si è andati oltre i rapporti commerciali. Alle regole esposte c'erano due piccole eccezioni. Oltre al lavoro che piaceva a tutti, a una parte degli immigrati piaceva uno svago: il gioco. Era una dannazione per diversi di loro. Giocavano a tutto, in esso erano altrettanto forsennati che nel lavoro. Mentre per quelli della Sarpi rappresentavano un enigma, per uno, un calabrese, di Locri, erano carta scritta. Si chiamava Turi, ma i cinesi lo chiamavano Big Turi, perché era alto più di un metro e novanta e per loro piccoletti sembrava un gigante. E poi perché per loro era un grande. Big Turi in Calabria si girava i pollici passando da un bar all'altro. A Milano aveva acuito l'ingegno. Aveva studiato i cinesi per qualche mese e poi era partito a razzo col suo lavoro. Aveva messo su un'agenzia di servizi. Sapete che faceva? Affittava autobus LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Chi ha vissuto a Milano, alla fine degli anni ottanta, in zona Sarpi, ha un proprio ricordo, dell'arrivo dei cinesi. Ognuno ne ha uno diverso. Allora la via era nota per i negozi, per qualche locale notturno e la bontà degli stuzzichini d'accompagno agli aperitivi, all'angolo della Niccolini c'era la rivendita delle Harley Davidson, e i motociclisti arrivavano annunciati dai tuoni. Il fatto che a me colpì fu un'insegna in via Aleardi. Era un neon bianco, da bar greco degli anni settanta. C'era scritto sopra, in verde, prucchieria. Ci venivano processioni a guardarla, adoranti e beffarde. C'era tutto quello che sarebbe accaduto, in quell'insegna, che non tutti lessero nel modo giusto. Stava per parrucchiera, ci entravano solo i primi cinesi arrivati, e forse non si facevano fare solo i capelli. I cinesi arrivavano alla chetichella, finivano nelle cantine umide degli italiani, a dieci, venti per volta. Tutti pensavano che fossero dei polli, pagavano il doppio per i negozi, le case, gli affitti.., all'inizio. Quando diventarono tanti esplose il panico, gli investimenti nella zona si trasformarono in un rischio. Gli immobili e le attività avevano perso valore, nessuno voleva avere al fianco un cinese. Tutto si era iniziato a dare via al doppio, poi al giusto prezzo, per la metà del suo valore e a cifre quasi simboliche. Si era, alla fine, realizzata una perequazioni fra quanto si chiedeva al principio del fenomeno e quanto si otteneva a fenomeno conclamato, e poi una sperequazione favorevole agli immigrati. Altro che fessi, i cinesi ora compravano a niente, ti facevano un favore. Sì, in quell'insegna non molti ci avevano letto bene, non solo per un fatto grammaticale. Lì c'era una sfida senza timori, un farsi largo fregandosene dei giudizi, delle risate LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Un due tre, bam! Aggiudicato. Prezzo mille euro al mese d'affitto. A metro quadro. Milano, da dieci anni a questa parte, ha scoperto la sua miniera d'oro. Trovarla non è stata difficile, è lì da sempre sotto il naso di Palazzo Marino. Un pezzo di città a forma di croce, 196 metri di lunghezza per 105 di larghezza, in pieno centro. Al secolo, la Galleria Vittorio Emanuele. L'ex Cenerentola trasformata dai geniali Re Mida del Demanio nella principessa del mattone meneghino e nel Bancomat della giunta. Data dell'ultimo prelievo: un mesetto fa, quando Yves Saint Laurent - dopo un'asta da brividi - ha accettato di pagare un milione di euro l'anno d'affitto per un negozio di 79 metri quadri con una sola vetrina. Mille euro al mese a metro quadro, appunto. Cifra in cui in buona parte della città si riesce ad affittare un intero appartamento. La metamorfosi estetica e finanziaria della Galleria è forse il segno più tangibile (assieme a Porta Nuova) della trasformazione della città in questo millennio. Il bilancio economico della svolta ha inequivocabilmente davanti - i numeri sono pietre - il segno più. Nel 2007 l'Ottagono e dintorni ospitava vecchie associazioni, abbaini vetusti e persone più o meno raccomandate e rendeva 7 milioni di euro di affitti al Comune. Oggi l'incasso è di 32 milioni. I 42.717 immobili di proprietà del Comune di Roma, per dire senza campanilismo, ne rendono poco più di 25. Non solo. I vincoli dei contratti d'affitto hanno costretto i nuovi ricchissimi inquilini a mettere mano al portafoglio e rifare il look ognuno a un pezzo della Galleria. E il risultato, difficile negarlo, è che la passeggiata tra il Duomo e Piazza Scala è una passerella di cui oggi i milanesi possono andare orgogliosi LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Nascono a est come il sole la maggior parte dei milanesi e delle milanesi in via della Commenda, sorgono a oriente come avessero iscritto nel destino per uno scherzo della toponomastica la commendatura, la sorte dialettale e caricaturale di diventar cummenda. Nella contorta città della salute del Policlinico, la Mangiagalli è per vocazione il quartiere del futuro dove è sempre domani. Si nasce di giorno, di notte, d'estate, ad agosto con l'afa, è sempre a domani che guarda la vita che arriva. "Domani nascerà per forza, indurranno il parto" ripete stravolto Pietro Lorini, titolare di una ditta di trasporti a Roma, 42 anni, primo figlio. "Figlio, sì, sarà un maschio e lo chiamerò Benedetto come mio padre. Spero vada tutto bene, mi auguro diventi imprenditore, come me, come tutti i Lorini da tre generazioni. Cummenda ma dè Roma. Siamo qui perché Laura, mia moglie, è di Milano e la Mangiagalli forse lei non lo sa ma è famosa in tutta Italia". Le domande risuonano ovunque. Richieste di rassicurazione ai medici, prudenti dubbi esposti alle puericultrici che invece maneggiano i neonati come consumate fruttivendole. E soprattutto, indicazioni. Su tutte una. "Dov'è il bar". Il bar della Mangiagalli sta di fianco alla Cappella di San Giuseppe ai padiglioni, dove si prega di giorno e soprattutto di notte. È infossato in un sottoscala, nella coda alla cassa i camici bianchi la spuntano sempre, i panini sono ottimi, il caffè così così. Davanti all'ingresso c'è una Madonna incastrata in un masso. Bigliettini, ex voto, cumuli di mozziconi lasciati a metà, ancora accesi come lumini LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
I sogni dei bambini di Milano, all'ombra del Bosco Verticale. "Da grande voglio fare il poliziotto", dice José, sei anni, in costume come i suoi coetanei che giocano, saltano, si rinfrescano tra i getti d'acqua del parco di via de Castillia 28. Zona esclusiva, giardino pubblico, possibilità di condividere gratuitamente, come dovrebbe essere sempre, la bellezza della Milano che cambia e che abbatte gli "steccati". José vive con la sua famiglia in viale Sarca. Sono arrivati a Milano diciassette anni fa, da El Salvador. "Stiamo bene, ci siamo integrati", dice suo padre. "Porto qui i miei figli perché c'è l'acqua, si può fare il bagno. Ci piace il fatto di potersi bagnare, cosa rara a Milano", dichiara una mamma di Greco, mentre allatta su un prato Emilio, un anno e mezzo. Suo fratello Carlo, di tre anni, sta riempiendo un secchiello arancione di un terriccio che chiama sabbia. "Quando cresco voglio fare questo: giocare con la sabbia", dice il bambino. Dario, undici anni, viene da Napoli. Con sua sorella di quattro anni sono ospiti di un amico milanese della mamma, che ha incluso nel giro turistico della città questa che sta diventando una delle mete più gettonate della Milano per ì più piccoli. "Questo parco è molto bello, molto meglio di quelli napoletani, che sono malmessi", afferma il ragazzino. "Mio cugino è architetto. Vorrei fare il suo lavoro o qualcosa che abbia a che fare con l'arte. Mi piace studiare arte". La fontanella eroga acqua fresca ed è usata dai bambini tipo doccia e dai genitori per darsi una sistemata prima di tornare a casa. Ci sono tavolini lilla che sarebbero perfetti in una casa di campagna, molto verde in questa nuova Milano che è un giardino a cielo aperto, uno spaventapasseri gonfiabile LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Da un lato di XXII Marzo un reo si inginocchia di fronte a Sant'Ambrogio in quel che resta degli affreschi di Butinone e Zenale. Nelle ombre di colore pare di sentire ancora gridare l'eretico passato alla corda per volere spietato del Santo patrono, terrorizza come una fotografia la silenziosa decisione con cui il carceriere trattiene il condannato. Dall'altra parte della strada suona come un antidoto alla brutalità alto medioevo il latino che spiega su cosa si fondi la giustizia degli uomini. Traduzione: "I precetti del diritto sono questi: vivere onestamente, non ledere l'Altro, attribuire a ciascuno il suo". Di fronte al bianco sentenzioso del tribunale, perdura l'intrusione della chiesa di San Pietro in Gessate. La realizzò Guinforte Solari nel 1476, architetto ticinese che con Bramante diede forma a Santa Maria delle Grazie di cui San Pietro sembra infatti un modellino anche se priva di cupola. La chiesa è quasi sempre chiusa, schivata dal serpentone turistico, sconosciuta alla maggior parte dei milanesi come se davvero la resistenza del sacro davanti al palazzaccio sfidasse la ragione del codice. Devastata dalle bombe del '43, nel convento strappato alla Chiesa da Maria Teresa d'Austria venne ricavata la prima sede dei Martinitt. La discrezione della facciata custodisce la penombra delle tre navate. Facendosi strada nel buio si arriva alla cappella intagliata nel braccio sinistro del transetto. Domina al vertice il volto di Cristo, sotto Sant'Ambrogio giudica, appare ai condottieri nella battaglia di Parabiago, benedice. Poi ecco la statua che respira. È Ambrogio Grifi l'archiatra, cioè medico, alla corte degli Sforza e del Moro, poi arcivescovo, insigne esponente dei Grifi, stirpe di mercanti la cui magnifica dimora è un'attrazione in via Valpetrosa LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Per vedere il panorama più bello di Milano bisogna salire al Belvedere del 39° piano di Palazzo Lombardia. Progettato da uno studio newyorkese, il grattacielo della Regione è uno dei simboli del nuovo skyline milanese. Una torre di 161,3 metri poi superata in altezza da quella di Unicredit, 13 milioni di chili di acciaio, 32 ascensori, una facciata di 75000 metri quadrati, 72000 metri quadrati di uffici, opere d'arte (Salvatore Fiume), spazi verdi e una riproduzione della Madonnina sul tetto. Impossibile non notare questo luogo cruciale per la vita lombarda, che si trova nella piazza coperta più grande d'Europa. Una parte della città non ancora decollata come punto di ritrovo, di sera i bar della zona chiudono, ma chissà. Tutto può succedere nella Milano che si trasforma. Le domeniche in cui il Palazzo era aperto gratuitamente erano amate sia dai cittadini sia dai turisti e in tanti in rete chiedono che l'iniziativa venga ripresa. Quando saliamo noi sul "tetto del mondo", con il Duomo e San Siro sullo sfondo e le nuove icone milanesi a portata di sguardo e di obiettivo, sono le sette e mezza di mattina. Prima che la luce accecante dell'estate confonda le idee bisogna sfatare un cliché su Milano: "è piccola", dicono alcuni. Le sue dimensioni sono minori rispetto ad altre capitali internazionali, ma vista da qui, vissuta ogni giorno in strada, sperimentata sulla propria pelle Milano è maestosa. Si fa domare solo da chi la rispetta e da chi arriva a conoscerla in profondità LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
I gatti neri non alzano bandiera bianca. Un albergo a sette stelle ha occupato manu militari il loro terrazzino preferito. I lavori per far spazio alle griffe della moda e ai Master Chef hanno reso la loro vita un inferno. Ma loro resistono. E continuano a vivere liberi e anarchici nel posto più chic di Milano - Galleria Vittorio Emanuele - senza spendere una lira d'affitto. Un censimento vero e proprio degli Aristogatti meneghini non esiste: sono una dozzina di felini neri (tra cui tre acrobati con tre gambe) che dal almeno vent'anni - tra tante cucciolate e mille peripezie - hanno preso residenza sui tetti e le volte del Mengoni, scampando ai tentativi di catturarli, ai drammatici (per loro) lavori di ristrutturazione del 2015, a mille cadute da decine di metri d'altezza e all'ostilità latente di un mondo dorato - i loro vicini - con cui i rapporti sono tesi. "Io la colonia la seguo dal 2007 - racconta Monica Torlasco, una delle tre gattare volontarie che spendendo (di tasca loro) 300 euro al mese provvedono ad accudirli- ma loro c'erano già dal 2000. Probabilmente sono i gatti abbandonati di una signora che viveva negli abbaini. Per un po' li ha seguiti un figlio di un pittore che aveva lo studio lì. Ora ci pensiamo noi". Non è facile. "Sono selvaggi, non si fanno avvicinare - prosegue Torlasco -. Un paio siamo riusciti a sterilizzarli, ma ogni anno nascono nuovi cuccioli". La valorizzazione della Galleria, opera benemerita per le casse del Comune, per gli inquilini a quattrozampe è stata un trauma LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
È un'estate strana, lo è dappertutto. Da dentro una città non lo si percepisce interamente. Dal Parco Sempione di Milano il cielo appare grigio, di colpo, sbuca da sopra la chioma folta di un bagolaro. Le nuvole si dipingono un occhio nero, lo mettono al centro di un diluvio minacciato. L'occhio scruta intorno, si starà guardando Milano, che chissà come sarà vista da lassù. E chissà cosa ne pensa il cielo di questa metropoli, che è un po' pagana anche se apparecchia la tavola per l'ultima cena di Gesù. Sì, chissà se ce l'abbia una dimensione religiosa, Milano. Quella cattolica la si percepiva tanto quando c'era Martini, ora di meno, ma non è assente. Il cielo, però, non fa minacce vane, piove, e forse è acqua di carità, che abbassa le polveri sottili, dà requie ai polmoni e rinfresca il collo scoperto delle milanesi. La religiosità si mette di lato da sola. Corro. Esco dove Napoleone sognò l'impero e Milano, sdegnosa, scacciò l'idea di imitare Parigi: l'Arco di Trionfo e i Campi Elisi. La zona Sempione non è diventata una piccola Parigi, come l'imperatore avrebbe voluto ma l'Arco della Pace c'è, e pure il lungo e largo viale di corso Sempione. Milano è sempre stata troppo originale per imitare. Ma l'orgoglio della città non è mai stato stupido, ha sempre cercato la propria dimensione e alla fine l'ha ritrovata del suo divenire continuo LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
L'avvocato si avvicina alla bestia di spalle. Felpato, attento a non dare nell'occhio. Si guarda attorno per studiare quando e come passare all'azione. A sinistra non arriva nessuno, alle spalle - in fondo sono le otto di mattina - c'è il vuoto. Sulla destra c'è un gruppo di giapponesi, troppo impegnato ad ascoltare la guida per accorgersi di lui. E' il momento. Infila la cartella di documenti sotto il braccio, molla il nodo della cravatta, inquadra l'obiettivo e - come ogni mattina - parte all'attacco. La preda, immobile e impennata sulle zampe posteriori, non ha scampo. L'assalitore si muove con la freddezza di un killer, malgrado l'età - una cinquantina d'anni - e un accenno di pinguedine: si piega sulle ginocchia, alza la gamba destra con l'agilità di un Rudolf Nureiev, pianta il tacco nei testicoli del toro e inizia a girare su se stesso. Novanta grandi, 180, poi 360 et voilà. Il rito apotropaico è compiuto e la giornata può iniziare. Con il piede ( è il caso di dirlo) giusto grazie al sacrificio dell'animale più maltrattato di Milano: il povero toro portafortuna dell'Ottagono, che da un secolo e mezzo ha messo la sua prorompente virilità al servizio della scaramanzia meneghina. Cosa abbia fatto per meritarsi questo infausto destino non è chiaro LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
"Sono dei rifugi per senzatetto" (no, ma costituiscono un riparo per chi vive in strada). "Servono per connettersi a internet con il wi-fi" (no, ma sarebbe bello). "Sono fatti con i resti dell'Expo" (sbagliato), più un'altissima percentuale di non lo so. I salotti lilla dell'Isola, nella foto quello di via Borsieri, a distanza di anni dal loro lancio, avvenuto sulla scia dell'Expo ma non riciclando i suoi materiali, sono ancora un mistero per alcuni abitanti della zona o per i milanesi e per i turisti che passano da quelle parti. "In realtà hanno i loro fan sfegatati ", dichiara Pier Vito Antoniazzi, coordinatore del Distretto dell'Isola. "Sono un esperimento di arredo urbano unico nel suo genere. I pannelli solari alimentano caricatori ai quali si possono attaccare i propri cellulari. Ci sono le rastrelliere per le biciclette. Su ogni "casetta" lilla c'è la mappa del quartiere. I due salotti del Bosco Verticale sono diventati una piccola Biblioteca, che fa anche bookcrossing". "Questi salotti sono nati come punto di incontro e di diffusione di materiale informativo. I ragazzi li usano per sedersi a bere una birra e a leggere un giornale. Riflettono lo spirito dell'Isola, un quartiere slow dove si vive molto in strada, dove c'è ancora una socialità all'aperto", fa notare il nostro interlocutore LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Di Vico Magistretti c'è in via Conservatorio la Fondazione, chiusa ad agosto. Chi l'ha visitata ha potuto esplorare lo studio dove Magistretti escogitava cose come la lampada Eclisse o la casa di via San Marco che tutti invidiano perché i fortunati abitanti ci entrano con una scala mobile che ancora oggi è, per chi non ci vive, il futuro. Lo studio sta al piano terra dell'edificio costruito dal padre di Vico, Pier Giulio, cui tempo dopo il figlio avrebbe potuto affiancare una propria architettura. Di tutti i dettagli che conservano la disposizione originale, colpisce uno specchio che Magistretti sistemò sulla cornice della finestra affacciata su via Bellini a sinistra della propria scrivania. Se ne serviva per poter ammirare, riflessa, la facciata di Santa Maria della Passione. Sul sagrato della chiesa, seconda per grandezza solo al Duomo e forse il monumento più vistoso del Rinascimento milanese, mancano d'estate le disordinate armonie che filtrano dalle aule del Conservatorio. In quasi mezz'ora non passa un'auto, sono vuoti i parcheggi dei residenti. Sopra il vecchio ciottolato e senza il rumore di un motore, si va indietro nell'Ottocento di Milano LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Da Cadorna a Cairoli la strada fa una piega a virgola, probabilmente la fa anche la metro rossa nel sottosuolo; se uno dovesse accompagnare un amico in visita a Milano, qui lo porterebbe per fare bella figura: si sente il parco Sempione, il Duomo, il teatro Dal Verme dà la voce allo Strehler. Però, avere un posto così bello e farci passare un traffico così molesto. Troppe macchine. No, non puoi avere Foro Buonaparte e mettere il catrame sui marciapiedi. Anche se è un termine abusato lo uso, questa parte della città è un salotto, se Milano fosse una casa, e Milano lo è, questa sarebbe una delle sue camere più belle: il Castello, il Parco, i teatri, la stazione, le due linee metropolitane e stai ai piedi della Madonnina. C'è tanta bellezza che lo sforzo dovrebbe essere non solo maggiore, ma massimo. Lo scorcio fra il Dal Verme e San Giovanni Sul Muro sembra un angolo di Parigi. Qui, nonostante gli obiettivi da realizzare bisognerebbe andare piano, altro che macchine o mezzi pubblici. Dovrebbero camminare solo gli occhi LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
"Quando l'Isola si è affermata come il nuovo posto dove stare, ero arrabbiata, temevo che diventasse una 'mangiatoia', un insieme di locali notturni e di ristoranti. In parte è accaduto questo, ma ci sono ancora dei presidi culturali. Vivo il mestiere di libraia con spirito di servizio" , dice Laura Campasso, che gestisce, ancora per pochi giorni, la libreria internazionale Isola Libri, nel cuore di quello che sta emergendo come il nuovo centro di Milano. Quando la andiamo a trovare, è in corso l'inventario. A settembre Campasso cede l'attività a sua figlia Elena, ventisette anni, già responsabile del settore bambini, e a Debora Omassi, venticinque anni, che pubblicherà con Rizzoli un libro autobiografico sulla sua esperienza nell'esercito, un percorso tentato prima di lanciarsi in questa nuova avventura. Fuori, Milano è in ferie. Dentro, oltre alle tre libraie, c'è un solo cliente, un professore di filosofia e storia che mangia un ghiacciolo al limone, porta una bottiglia di acqua a Campasso, legge Zola, supporta come acquirente e come amico la libreria. In effetti, Isola Libri è anche un punto di ritrovo. Dove scoprire le novità editoriali, cercare un classico - il catalogo è di 10.000 volumi - o anche solo fare conversazione, in linea con l'approccio comunitario dell'Isola. Le famiglie si aiutano nella gestione dei figli. Agli aperitivi serali in piazzale Archinto, che diventerà sempre più verde e più a misura di bambino, si portano anche i più piccoli. Quando ha chiuso la cartoleria di zona, Isola Libri ha aperto un reparto che potesse soddisfare quelle esigenze LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
La vita da arcivescovo è dura. Se la poltrona poi è quella dell'arcidiocesi di Milano, ancora di più. Il problema non sono tanto i 5 milioni e passa di pecorelle (più o meno smarrite) da accudire. Ma il calendario. Dove alla data del sabato più vicino al 14 settembre - cerchiato in rosso - c'è un D- Day da brividi: il rito della nivola. Il nome, in sé, evoca una tradizione leggiadra e delicata come i disegni nel cielo dei cirro-cumuli. E la scenografia in Duomo fa di tutto perché l'effetto sia proprio quello. Per il gregge dei fedeli, però. Perché per il pastore quello è il giorno in cui - più che pecora - deve essere leone. Prendere il cuore in mano, ignorare la paura e affidarsi alla protezione divina per affrontare un'impresa stile Tom Cruise in Mission Impossible: l'ascesa al cielo (fino a quota 40 metri) nell'ascensore più antico della città. Obiettivo: recuperare la reliquia del Sacro Chiodo della croce di Gesù Cristo custodito nella volta dell'abside che per 40 ore, chiuso nella croce dorata del Duomo, sarà poi esposto alla venerazione dei milanesi. Il brivido, oltre alle vertigini, è figlio del mezzo, la "Nivola". Un trabiccolone a forma di nuvola vecchio quasi quattrocento anni, costruito in legno, ingentilito da tele e statue di angeli e cherubini di Paolo Camillo Landriani, attaccato al soffitto della cattedrale da un sistema di funi e carrucole. Il risultato estetico è eccellente, l'unico problema è il peso: 800 chili. LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
In via Ludovico Ariosto si sente nitidamente la voce del parco Sempione, sembra quella di un soldato, un generale antico che chiama intorno a sé le sue truppe, per dare tregua alla guerra e riprendere forza. Chi ci passa un tempo sufficiente Milano non l'abbandona più, e chi credendo di fare un complimento ha messo in parallelo il Sempione con Milano come il Central Park con New York, misuri le parole che quello è splendido, ma lì non è capitato a nessuno un capogiro da Stendhal come accade di sovente qui nel Castello Sforzesco, non tanto per il maniero; quali parchi al mondo possiedono un Michelangelo? La sua incompiuta, per modo di dire, Pietà Rondanini è da svenimento, non solo per gli accaldati turisti americani. È custodita nel museo ricavato nell'antico ospedale spagnolo. Penso alla Pietà, gli occhi mi tradiscono e mandano in fumo l'estasi, mi sento a disagio vedendo la donna filippina che spinge la carrozzina con dentro un pargolo troppo biondo per essere suo, che invece dovrebbe essere la progenie della bionda riccioluta che le passeggia a fianco, impegnata al telefono, che evita lo sforzo e si paga il trasporto. Esco sulla via per Cadorna, il piazzale riproduce la concretezza di Milano e rimanda a una metafisicità che è forte più di quanto si creda, c'è anche il coraggio della città di non temere gli slanci. E Cadorna è uno slancio, risucchia sangue dalla stazione Nord e lo pompa nelle vene metropolitane. A starci in mezzo al piazzale lo sguardo se ne va per forza in alto, perché è sempre al cielo che questa città punta LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
San Francesco è uno stilita che a cinque metri d'altezza benedice in controluce nel cielo dell'alba dal 1926. La scura epifania di bronzo si presenta come una silhouette, un ritaglio di cui non si vede il volto ma dove risaltano le braccia alzate che invitano lo sguardo a salire. Tutte e cinque le dita della mano sinistra sono aperte, solo tre invece della mano destra. Un conto mistico, cinque e tre otto. "Cinq e tri vott, tri che lavoren e cinq che fan nagòtt". Spirito dialettale, aritmetica dissacrante, ma facendo due conti seri, pare che ogni anno l'Opera di San Francesco all'ombra del patrono serva quasi un milione di pasti gratis. Quando Domenico Trentacoste, scultore siciliano, fu incaricato di realizzare il calco che sarebbe diventato il "Cinq e tri vott" di Risorgimento, volle che a raccontargli la vita di Francesco per ispirarlo fosse Fra Cecilio, il Cappuccino che aveva bussato alle porte dei milanesi per chiedere i finanziamenti per la scultura e finì che Trentacoste, vedendo Cecilio, si convinse che il viso di Francesco dovesse essere uguale al suo. Antonio Pietro Cortinovis nacque nel 1885 e prese i voti nel 1910 come Fra Cecilio Maria. Fu destinato alla portineria del Convento dei Cappuccini e nel '21 ne divenne portinaio. Il custode della sede dei francescani che Bava Beccaris nel 1898 aveva preso a cannonate sospettando la presenza di rivoltosi. Sempre con gli ultimi i fratelli, come ai tempi del Lazzaretto, come nel 1630 quando vi morì un Fra Cristoforo che pare suggerì a Manzoni il personaggio dei Promessi Sposi. E dal Lazzaretto vengono alcune reliquie conservate nel Museo dei Capuccini di via Kramer accanto a una collezione di devoti dipinti LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Il look della chiesa di piazza Santo Stefano è tutt'altro che quello standard di un luogo sacro. C'è un pizzico di Halloween, un po' di Coco - il bambino messicano della Disney, abituato a fare il pendolare tra mondo reale e aldilà - e, volendo, anche una spruzzata della sposa cadavere di Tim Burton. Chiesa è una chiesa, intendiamoci. Le croci ci sono. Ma sono fatte di ossa. Teschi, tibie, scapole, femori, radii e ulne - tutti rigorosamente reali - incrociati con gusto artistico sulle pareti. I muri della sacrestia, almeno quelli intesi in senso tradizionale, non esistono. Mattoni e gesso sono sostituiti da una impennata verticale " terra- cielo" di scheletri scomposti, trattenuti solo da una sottile rete metallica, guarniti ai lati da una decorazione a metà tra l'atlante di anatomia patologica e la riproduzione del Jolly Roger dei pirati. Chi sono questi cadaveri? Da dove arrivano? Qualcuno dice siano i martiri della persecuzione degli eretici ariani al tempo di Sant'Ambrogio. Ma la datazione delle ossa pare più recente. Più facile siano salme recuperate dalle vecchie fosse comuni dell'Ospedale del Brolo che aveva sede a due passi dalla chiesa, o vittime della peste del ' 600, quando l'Ossario venne rimesso a nuovo per l'ultima volta. Di sicuro se l'idea era quella di ricordare nei secoli la caducità della vita terrena, l'obiettivo è raggiunto LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
"Il segreto è bere anche il brodo. Bisogna sdoganare il risucchio finale. Se non si fa rumore alla fine, non si gusta il ramen. È la cosa più difficile da far fare ai milanesi" , spiega Luca Catalfamo, che dall'Isola, prima con Casa Ramen poi con un altro locale, sta conquistando Milano ed è stato chiamato pure dai giapponesi a preparare il piatto che da loro è un'istituzione. Una zuppa di tagliatelle di frumento, condita in tutti i modi possibili, trasforma la periferia in un nuovo polo di attrazione per i milanesi e per i turisti, cambiandone la vocazione: dalle fabbriche alla movida. "Le periferie esistono", dice Catalfamo. "Ci sono ancora situazioni degradate. Ma opere come il Bosco Verticale e piazza Gae Aulenti hanno aiutato questa zona a essere meno isolata rispetto al resto della città. L'Isola si sta spostando sempre di più verso il centro e il centro verso l'Isola. La mia clientela viene da tutte le parti di Milano e del mondo, grazie anche al boom del turismo". Ci aveva già provato il sushi ad attaccare la cotoletta come piatto tipico milanese. Ora tocca al ramen, ma cos'ha di speciale? "Insieme alla pizza è il mio comfort food. Mi rigenera. È una pietanza completa, calda, confortevole. Gli asiatici lo mangiano anche d'estate" LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
"Ecco, guardi, si mangia e basta" . Via Anfossi è stata a lungo invisibile, utile al torpido via vai della placida zona residenziale. Oggi è il centro che a Porta Orientale annuncia da est l'epoca del cibo, è la cartolina che riassume l'ultima rivoluzione milanese, la mutazione della città in mensa diffusa. Due passi in Anfossi. Da Akytaia sushi e sashimi in asettico ambiente bianco, da Cacio e Pepe classico affaccio su Roma immersi in atmosfera finto trasteverina, da Pizzium grani solo italiani e pregiatissime fior di latte con i sammarzano per la margherita, all'Isola dei Sapori il mare di Sardegna ma soprattutto il maialino ( solo su prenotazione), alla Taverna Stelios la Grecia alla buona su familiari tovaglie biancazzurre, ma la moussaka naviga nell'olio, da Urbani una gioielleria di funghi e tartufi anche fuori stagione. Il dessert, al cioccolato, lo prepara il tedesco Ernst Knam. E allargandosi, battendo non il quartiere ma l'isolato, ci sarebbero i russi, i mongoli, i fusion, ci sarebbe in XXII Marzo il mercato gourmet di Santa Maria del Suffragio, la chiesa che forse un giorno verrà detta di Santa Maria del Supplì a Porta Orientale LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Arrivo all'imbocco della linea rossa mi dico che c'è la via Ariosto, ha due tesori che i milanesi veri sanno apprezzare: il cinema Ariosto è come un libraio indipendente, mette sugli scaffali solo la roba che ritiene buona, proietta il cinema d'autore. È un cinema milanese e come tutti i suoi concittadini pure lui ha vissuto e morirà con un obiettivo. Sarebbe bello fermarsi, entrare anche solo a guardare la sala, fare una carezza al primo che s'incontra e dire grazie. Sarà uno scopo buono per un altro giorno. Sempre in Ariosto, per chi ce l'ha davvero il gusto estetico, ma pure che finge va bene, una leccornia da pasticcere sopraffino è Casa Agostoni, uno degli esempi più riusciti del liberty, lo stile che si dice rappresenti il trionfo della borghesia, il gusto a portata di masse. E se Milano fosse uno stile, sarebbe il liberty. La campionessa del liberty, il trionfo della borghesia e il gusto portato alle masse LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Cantava 69 année érotique la conturbante coppia Serge Gainsbourg/ Jane Birkin. Fruscia dal 1969 la ciabatta di Paolo Scoccimarro sui giornali messi a terra nella cucina del Bar Picchio per non rovinare il pavimento. Un suono che ha l'erotismo di una madeleine ancestrale, è il rumore dell'incedere di tutti gli anziani del mondo, il camminare di nonni e avi che ciascuno ha per forza avuto pur senza conoscerli. In via Melzo 11 è sera ancora una volta dopo 49 anni ma alle 21 la ciabatta non sfrega. "No, papà c'ha le palle girate adesso, ma dì pure a me" si offre Felice, figlio di Paolo, che a 40 anni inizia ad avere anche lui sopra le pagine di cronaca l'incedere del fondatore del Picchio, suo padre appunto, venuto nel '69 dalla lontana Bisceglie. Giunto non dall'ovest milanese in metro ma dalla costa est della Puglia in treno, provincia di Barletta-Andria-Trani, in una città che allora dava ancora volentieri del terrone, ma senza affetto, a chiunque tradisse un che di meridionale. Figurarsi a uno Scoccimarro, più che un cognome un marchio. Scoccimarro oggi in via Melzo è come chiamarsi Brambilla, è quasi un nobile patronimico di origine onomatopeica che imita il suono tipicamente milanese della ciabatta che sfrega sui giornali sparsi a terra. In Porta Venezia sono arrivati gli eritrei, sono stati adottati nell'arcobaleno tutti i sessi e le possibili alchimie, ma prima di tutti c'era il Bar Picchio, c'erano gli Scoccimarro. C'era il tavolo da biliardo che ora, coperto da un telo, funziona da edicola. C'era la bacheca di vetro stipata di ninnoli indecifrabili donati negli anni dai clienti. C'erano gli inserti in lynoleum, forse c'erano già i festoni a fisarmonica appesi per una prima antichissima festa e poi rimasti a penzolare per tutte quelle celebrate in seguito. C'erano uguali (e a volte viene il sospetto siano proprio gli stessi) i piattini con le frittate e la pasta saltata al banco. E c'era il telefono a gettoni, dove Francesca, mora trentenne, fa cascare un euro e ancora stasera si apparta abbracciandosi alla cornetta LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
A, B, C, D. Bene, ora Da, De, Di et voilà. Eccolo qui. Diavolo. Indirizzo: Corso di Porta Romana 3. Se le Pagine Bianche avessero un po' di rispetto per la storia delle città, l'inquilino del vecchio palazzo barocco a un passo da Piazza Missori sarebbe da quasi quattro secoli solo lui: il diavolo, al secolo Lodovico Acerbi. All'anagrafe un nobiluomo ferrarese, che - come molti romagnoli - portava stampato nel Dna il dono di sapersi godere la vita. Nella vulgata di strada del 1630, il diabolico personaggio che nel pieno della peste ha fatto diventar matti benpensanti e beghine della città. Festeggiando, mangiando, bevendo come se non ci fosse un domani mentre nel resto del centro regnava il caos. Gironzolando ogni sera con la carrozza trainata da sei cavalli neri mentre il batterio del yersina pestis sterminava 64mila milanesi, il 24% dei suoi concittadini. Immune da ogni contagio perché protetto - garantivano i monatti che facevano la spola con il Lazzaretto - direttamente da Satana. Lui, vedendolo ora con distacco, deve averci giocato un po' su: più l'epidemia avanzava, più a lungo rimanevano accese le luci in Corso di Porta Romana 3 e più alto il volume di musica e risate. I milanesi si chiudevano in casa per sfuggire alla malattia? Lui schierava all'ingresso di Palazzo Acerbi - come si chiama ancora - i suoi sedici staffieri vestiti in nero e verde. Gli stessi colori con cui allora si ritraeva il diavolo. E quando passavano i cadaveri diretti al foppone, la fossa comune, lui si affacciava ridendo alla sesta finestra del primo piano, dicono un po' suggestionate le malelingue. Che quell'edificio lo chiamavano il palazzo del diavolo LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Aveva chiesto di essere sepolto nel modo più sobrio possibile ed è stato accontentato. Ugo Foscolo, nei Sepolcri, si lamenta che i resti di Giuseppe Parini giacciano in quello che era il Cimitero della Mojazza, oggi Isola, allora campagna, accanto alle ossa di un ladro, senza gli onori che un poeta del suo livello avrebbe meritato. In seguito, la sua salma ha alimentato leggende e misteri. C'è chi dice che si trovi ancora sotto le case, abitate, costruite su quel cimitero, poi chiuso. C'è chi sostiene che sia andata persa mentre la stavano trasportando al Monumentale, inaugurato dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1799 a Milano. Con un'ultima ipotesi suggestiva: quando hanno aperto la bara per dare una sistemazione definitiva a colui che era anche un abate e un professore, l'avrebbero trovata vuota. L'unico punto fermo, che pure non è così facile da trovare, è la sua lapide. La lapide del letterato, che pure Milano ha omaggiato in tanti modi, si trova in uno stabile di piazzale Lagosta 1. Non ci sono targhe, scritte, celebrazioni particolari con una discrezione, voluta dall'interessato, che è stata presa alla lettera. Non è visibile dall'esterno. Per toccare con mano questa preziosa testimonianza bisogna appostarsi davanti al portone, aspettare che esca o che entri qualcuno e accedere al condominio. Oppure adottare una soluzione alla Benigni: citofonare ai suoi abitanti LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Mi sono seduto ai tavolini della Pasticceria Biffi, di corso Magenta, vi racconto una storia nera. Potrei generalizzare, mischiare le carte e mettere insieme tutti quei ragazzi di un Sud che ha, al contrario della stragrande maggioranza dei meridionali saliti che a suon di fatica hanno costruito il loro sogno e la fortuna della città, provato vie rapide che non prevedevano il sudore e che per un po' li hanno tenuti belli freschi e profumati, persino invidiati, benvoluti. Quello di Sant'Anastasia, un vecchio che seduto su una panchina delle Cave, guardandosi intorno parlava dei bravi ragazzi di Baggio, che macinavano miliardi e tenevano in pace il quartiere, prima di essere spazzati via dalla magistratura, non diceva balle. Milano davvero l'ha vissuta una stagione così, e togliendo gli ammiccamenti nostalgici che faceva lui: che mafie buone non esistono, si possono solo dividere fra tumori dolorosi e cancri che portano alla morte senza aver mai mostrato sintomi. I bravi ragazzi più bravi, che quelli di Baggio al confronto erano dei cavalieri pallidi, sono stati i calabresi, per essere precisi gli aspromontani, e l'Aspromonte, prima di Milano è la mia casa, quella che più amo. Una piccola parte di una generazione nata fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, era arrivata in città fra gli ultimi tempi del Settanta e i primi scampoli dell'Ottanta. Anziché entrare in fabbrica o salire sulle impalcature si erano presi le piazze, se le erano inventate persino, e vi avevano steso tappeti di scura, l'eroina: hanno macinato vite e miliardi, i cadaveri se ne sono andati al cimitero e i soldi li hanno buttati nella Milano che cominciava a divertirsi LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Bere acqua miracolosa in quello che è considerato il nuovo centro di Milano, Isola, senza dovere spiegare i motivi della propria presenza nel Santuario se non affidandoli, volendo, a un quaderno posto all'uscita. Liquido limpido, fresco, buono, che sgorga da undici rubinetti color bronzo con i bicchieri di plastica che sono lì, pronti all'uso. Si può accedere liberamente a questa fonte naturale, che risale al Cinquecento, e restare quanto si vuole. Santa Maria alla Fontana, in piazza Santa Maria alla Fontana 7, vale davvero una visita. "È una piccola Lourdes", dice l'uomo che sta pulendo la navata centrale della Chiesa. Vengono da tutto il mondo, a giudicare dalle frasi lasciate dai fedeli, per guarire - la situazione più ricorrente - , per avere i mezzi per sopravvivere, per sentirsi meno stranieri, per risolvere i problemi personali. All'inizio del XVI secolo Luigi XII occupa il Ducato di Milano, nominando governatore il nipote del suo primo ministro, Carlo II d'Amboise. Giovane maresciallo francese, d'Amboise si ammala. Su consiglio dei milanesi ricchi dell'epoca, che già veneravano questa sorgente, va a pregare in quella che oggi è Santa Maria alla Fontana: "Se guarisco costruirò un Santuario", promette il militare, e così è stato LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
La tana dei vampiri più buoni di Milano è stata studiata nei dettagli. Altro che cupo castello in Transilvania. All'ingresso c'è un bel giardino - appena sistemato - per convincerti che va tutto bene e non c'è nulla di cui aver paura. Poi ci sono gli optional: panino e bibita a scrocco più quel certificato medico che consente agli ospiti - se vogliono - di saltare un giorno di lavoro. Dentro di Dracula e dei suoi canini nemmeno l'ombra: solo i medici e i volontari della banca più importante della città delle banche: quella del sangue dei Donatori del Policlinico (www.donatorisangue.org). L'unico posto al mondo dove questo liquido scorre a fin di bene. I numeri testimoniano che i milanesi, oltre al cuore, hanno pure le arterie in mano: da inizio anno al 2 luglio 2018 sono passati sui lettini del laboratorio (l'ingresso è da via Francesco Sforza) 18.923 persone lasciando in deposito quasi 10mila litri di oro rosso. Materia prima necessaria per trapianti, per curare patologie croniche come talassemia e anemia, in oncologia e nelle complicazioni del parto. Si aiuta gli altri, si aiuta pure se stessi. La donazione prevede una serie di analisi sul sangue che è una sorta di auto-check-up medico personale a 360 gradi LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Officiale alla Massetteria, giudice all'Esaminidor, officiale alla Ternaria vecchia, membro della Quarantia civil vecchia, camerlengo, provveditore, avvocato, magistrato. E compositore come il fratello Alessandro, autore del concerto per oboe e archi il cui adagio divenne famoso come colonna sonora nel '70 di Anonimo veneziano. Benedetto Marcello, nato a Venezia nel 1686 e morto a Brescia nel 1739, fu barocco a partire dalla sfilza di titoli accumulati simile a quelle liste di cariche che il ragionier Fantozzi enunciava quantificando così la ferocia biblica dei capi. Barocca è l'enfatica umanità di via Benedetto Marcello, più che una via una lunga piazza alberata, più che una piazza un compendio del molteplice che nel bene e nel male è la città. Il mercato di Benedetto Marcello si svolge il martedì e il sabato, uno dei circa cento mercati rionali che a cadenza periodica restituiscono al termine "mercato" la concretezza dei banchi sottraendolo alle fluttuanti astrazioni finanziare. Passano carri spinti da cinesi, sfilano decine di passeggini trainati da infaticabili donne motrice nascoste dal velo. I perini fanno salsa nel sole a 0,99 al chilo, una giunonica donna in tubino nero fa mercanzia di sé all'ombra di un platano. Spande attorno a sé il profumo di un detergente all'aroma di zenzero ma ogni cosa qui sembra emanare zenzero. La radice di ginger pare aver attecchito tra le casse di verdura come una specie di prodotto autoctono, locale, lo zenzero milanese LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Se si spulcia negli archivi dei poliziotti vecchio stampo, quelli che puntavano un criminale e ne facevano una sfida totale, se si ascoltano i loro resoconti nei processi, si scoprirà che fra Magenta e De Angeli ci ha vissuto una Milano parallela. I suoi echi mi tornano in mente come le parole di un anziano che si è seduto di fianco a me, sopra una panchina del parco delle cave, in zona Baggio, e voleva raccontarmi una storia criminale. Ho camminato a un'andatura da passeggio, non le contate le ore, e nemmeno i chilometri, ma non saranno molte le prime e tanti i secondi, eppure i piedi sull'asfalto hanno succhiato un pezzo di storia. E Milano è fatta di storia e cronaca, che negli ultimi cinquant'anni si sono fuse insieme. Mi è accaduto quando nel mio passeggio mi sono bloccato davanti al Pio Albergo Trivulzio, la nobile carità che aveva fatto nascere l'istituto, in una lunga via ideale che è segnata dalla caritatevole anima meneghina, per un attimo, è stata offuscata dal ricordo di uno dei suoi massimi dirigenti che qualcuno aveva definito mariuolo e che invece aveva cambiato, ha cambiato, il corso della storia, della Nazione, non solo della città. Perché in fondo le voci che la città trasmette rivelano una verità incontestabile: Milano è la Nazione LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
E venne l'Ottocento e la modernità si manifestò a Parigi, vista arrivare nello smeraldo dell'assenzio da Charles Baudelaire. Il filosofo Walter Benjamin, indagando tempo dopo un'epoca che attraverso di lui, morto in fuga da Parigi nel '40 a Portbou, avrebbe trovato l'esegesi definitiva, giunse alla conclusione che la massima espressione della modernità parigina furono i passages, le gallerie commerciali che già da fine Settecento iniziarono a essere scavate tra i palazzi della Ville Lumière. La Galleria Buenos Aires si fa strada nei pressi del civico 42, ovviamente in corso Buenos Aires. Si fa largo dentro un palazzone anni '50 che ingoiò le case di ringhiera. Quattro corridoi di negozi, intercambiabili vetrine di casalinghi, pallidi vestiti, destinazioni d'uso disabitate e illuminate da una luce funebre spenta della volta in vetrocemento. Nel 1956 si aggirava tra i tunnel Dario Fo corteggiando Franca Rame ne Lo svitato, grazioso film di Carlo Lizzani. Cosa resta del passage di Buenos Aires? La cosa più moderna, in piedi dal '53, alla fine è, all'imbocco della Galleria, il Cin Cin Bar. Non chiude mai, ha il coraggio di avere un dehors affacciato sul traffico e le terze file dello shopping. In un'ora si può veder passare Cristiano Malgioglio, litigare un trans con un tassista, ammirare la rimozione forzata di una Lamborghini Huracàn targata svizzera. E immaginare Gillo Dorlfles, che qui di fronte passava, trovare conferma della modernità del kitsch LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
"Sono arrivato su un barcone, otto anni fa. Dalla Sicilia mi sono spostato una prima volta a Milano, ma per me non c'era posto così sono salito su un treno a caso scendendo a Genova, dove ho preso la terza media e dove ho lavorato fino a poco tempo fa, quando sono riuscito a trasferirmi di nuovo qui". Moustafa Mohamed, egiziano, 23 anni, è il giardiniere dell'agriparco della Fabbrica del Vapore di via Procaccini. I luoghi sono fatti dalle persone. Divisa verde, verde anche il cappellino che lo ripara dal sole, stivali di gomma gialli, il giovane uomo si muove in bicicletta innaffiando zucche giganti, melanzane. Accanto ad alcune coltivazioni c'è una carriola gialla, che serve per trasportare il risultato dei vari raccolti. Una svolta green percepibile fin dall'ingresso della Fabbrica del Vapore, dove ci si imbatte in peperoni che verrebbe voglia di mangiare crudi. Progettato dallo Studio Grassi Design, con aree di sosta dove le mamme portano i bambini per avviarli alle meraviglie della natura e siepi a forma di Topolino, questo polmone verde, in una struttura già molto frequentata per le sue iniziative culturali, si trova nel piazzale interno dell'edificio LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
A piazzale Baracca convivono la leggenda dell'anonimo principe austriaco, figlio illegittimo dell'imperatore Francesco Giuseppe, che costruì una delle prime ville della zona Magenta, e la storia leggendaria di Francesco Baracca. La zona in cui si apre piazzale Baracca, tradizionalmente si chiama Sant'Ambrogio, e all'inizio di corso Magenta c'è la storia della pasticceria milanese, passare da qui senza andarsi a sedere ai tavolini del Biffi sarebbe un oltraggio alla vera Milano. I muri del locale sussurrano la nascita del dolce meneghino più conosciuto al mondo, di Ughetto, invaghitosi della figlia di un fornaio che compì l'impresa come gesto d'amore salvando il suocero dagli artigiani concorrenti, inventando il panettone. Biffi ne fa uno dei migliori esistenti, fedele al primo, infornato nel 1847, anno della fondazione della Pasticceria, gustato per primo da Pio X, e decorato personalmente da Paolo Biffi con una crosta di zucchero tricolore che riproduceva i simboli della libertà. La Pasticceria Biffi rappresenta un ritrovo salottiero per eccellenza, ci passano i ricchi veri, i presunti, gli aspiranti LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
"Più la guardo meno capisco cos'è e cosa vuole dirmi". Il Gianni, lattoniere a Porta Romana, non se ne fa una ragione. Ne sa un po' di geologia, ha studiato per passione tutti i segreti della storia di quartiere. Ma malgrado sei decenni di ricerche ("lo direbbe mai che ho 82 anni?) l'unico rebus che non ha risolto è questo qui. "Perché è rotonda? Cos'è quel buco al centro? E quelle tredici linee?". La pietra grigia e antica - "ha almeno 2mila anni" - non risponde. Nell'aria - siamo nella chiesa di Santa Maria del Paradiso di corso di Porta Vigentina - c'è profumo d'incenso, ricordo del funerale appena finito. Ma il Gianni - che ha il naso più fine - annusa anche qualcosa di più antico. "Ho come una sensazione di vischio, di druidi, di cerimonie pagane". Miraggi olfattivi? Chissà. La certezza - allo stato - è solo una: la reliquia incastrata nella navata centrale è il simbolo di una delle più antiche feste di Milano, quella del "tredesin de mars", la sagra che nella metropoli sempre di corsa festeggia in anticipo l'arrivo della primavera. Il resto è leggenda LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Una coppia di danesi gli ha appena portato una rosa gialla. Sono in vacanza a Milano, sapevano che al Cimitero Monumentale è sepolto l'autore de I Promessi Sposi, che hanno letto e amato. A metà del nostro viaggio, non distanti dai simboli della Milano che cambia, siamo venuti anche noi a rendere omaggio a uno dei padri della città, Alessandro Manzoni, la cui tomba, con ritratto dello scrittore e bassorilievi realizzati da Giannino Castiglioni, domina il Famedio, il tempi dove sono conservate le spoglie dei milanesi illustri. "Abbiamo molte tombe di personaggi e famiglie importanti, ma Manzoni è il più cercato. Ci chiedono anche dove siano sepolti Pavarotti e Callas, ma non riposano qui. Su una guida ci dev'essere un'indicazione sbagliata", spiega Massimo Alessandrini, che sta facendo il servizio civile all'Infopoint di questa che è una delle prime mete turistiche di Milano. "Il sarcofago manzoniano, che inizialmente era collocato lungo una parete accanto a Carlo Cattaneo, nel 1958 è stato innalzato su un basamento con rilievi in bronzo di Castiglioni. Nel fare questa manovra gli operai hanno dovuto tirare fuori il corpo di Manzoni che, illuminato dalla luce che entrava dai rosoni, è diventato fosforescente. La leggenda dice che chi stava compiendo l'operazione abbia urlato: "Manzoni è risorto!"" LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Tra gli alberi di via Morgagni alla bocciofila all'aperto si discetta sullo scambio Caldara-Bonucci, poi sull'approdo di Higuain in rossonero. "C'è qualcosa sotto". Lo stipendio di Ronaldo merita improperi, poi si sboccia. "Dov'è Casa Boschi di Stefano?". "La villa? Di lì, vada in via Aldovrandi". Qualcuno ancora chiama la Fondazione Museo di via Jan 15 la "villa" come faceva Piero Portaluppi, illustre architetto della casa realizzata tra il '29 e il '31 per conto del costruttore Francesco Di Stefano. Era detta villa perché la zona era allora urbanizzata a macchia di leopardo con ampi spazi incolti. Oggi la palazzina di quattro piani è un angolo stradale dell'est, calato in un silenzio difficile da immaginare dietro Buenos Aires. Un silenzio quasi eccessivo. Dal 2003, anno dell'apertura al pubblico, si stima che i tesori custoditi qui dentro siano stati visti da 150mila persone. Record l'anno passato con 30mila. Quanto vale una delle collezione più belle dedicate all'arte italiana XX secolo? Dagli anni '10 ai '60 del Novecento, l'appartamento fu riempito di dipinti, sculture, disegni, mobili di pregio dai suoi abitanti, Marieda Di Stefano, figlia del proprietario, e Antonio Boschi, suo marito. A introdurli all'ossessione dell'accumulo era stato Francesco Di Stefano, il costruttore. Nella prima stanza di undici, ci sono nove ritratti dedicati alla coppia e alcuni dei piatti che la bella Marieda, che aveva laboratorio in via Jan, realizzò da ceramista. Sala dopo sala, ecco Sironi, Carrà, Boccioni, Morandi, anche un Picasso, De Chirico, Fontana LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Il nome, via Orti, è l'indizio. La città, prima di essere città, era campagna. E il grano per la farina, la verdura per le insalate e l'uva per il vino necessari a sfamare i milanesi arrivavano da qui. Gli studenti del Berchet, i pazienti dell'ala sud del Policlinico e gli attori che salgono sul palco del Carcano faticheranno a immaginarselo. Ma dove loro studiano, si curano e recitano, fino a metà '800 c'erano viti, fossi e orti a vista d'occhio. Un granaio pensato dagli Sforza per garantire panem et circenses ( nel senso della bevanda di Bacco) ai loro sudditi in caso d'assedio della città. E nella cinta daziaria, a meno di un chilometro dal Duomo, c'era chi vendemmiava, torchiava le vinacce e poi versava il mosto fermentato nelle botti per produrre quello che all'epoca era considerato l'ottimo Doc di Milano. Il vino e gli orti oggi non ci sono più. I contadini sono spariti, prosperano creativi e archistar. Capaci di spremere soldi anche da uva e ortaggi virtuali. La prova? Il progetto Horti (l'"H" fa chic), la riqualificazione della residenza ottocentesca delle "Piccole sorelle dei poveri vecchi" di via Orti. Poveri, in questo caso, mica tanto. L'edificio è stato venduto per 32 milioni alla banca Bnp- Paribas, che sta investendone 100 per riqualificarlo con disegno di Michele De Lucchi. Un po' della vecchia anima agreste si salverà: 10mila metri quadri disegnati come il vecchio Hortus conclusus delle abbazie, il giardino delle erbe aromatiche. Resteranno cedri del libano e tigli. Il resto saranno abitazioni. Visto il prezzo di vendita, fino a 10 milioni al metro quadro, non è difficile capire perché LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Piazzale Baracca rappresenta un crocevia fisico, ma anche ideale, se ne sta fra Wagner, Washington e Magenta, in punta a corso Vercelli. Qui l'odore della campagna di Baggio, a pochi chilometri, non arriva, anche se partendo da una panchina del parco delle Cave, ci si viene in pochi minuti con i mezzi, in un'ora a piedi, a passo medio. Non arriva nemmeno il sentore del Piemonte, a cui per secoli questa parte della città ha guardato, si archiviano definitivamente le bellezze soft del De Angeli, le radici paesane della Maddalena e lo sforzo operaio del villaggio Frua. Epica e nobiltà si rilasciano dall'eroe del volo a cui è dedicato il piazzale ed ammantano la zona. Qui è centro nel senso più comune del termine, gli edifici fanno a gara per bellezza e per cura. In zona ci stai se puoi, per entrare nell'intimo del luogo, bisogna partire dal leggendario fulcro di destini che s'incrociano sul piazzale, il barone e il principe: nobili, eroi, avvinti e distrutti in uno stesso conflitto, su fronti avversi. Uno degli edifici più belli in giro sta nella via Toti che parte dal piazzale, ora è un palazzo di cinque piani, ma la parte inferiore appartiene a una villa di fine ottocento che ha segnato la nascita del quartiere, indirizzandolo da subito al pregio edilizio LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
È un errore tutto umano il peccato originale. Nel divino e perfetto brodo primordiale messo a punto poco meno di un secolo fa dal conte Camillo Negroni ci andavano un terzo di gin, un terzo di bitter Campari, un terzo di vermut rosso, una fetta d'arancia. Finché una sera fine anni '60, 40 e rotti anni più tardi, Mirko Stocchetto si confuse afferrando tra le bottiglie lo spumante invece del gin. La storia raccontata dieci, cento, mille volte di come nacque il Negroni Sbagliato al Bar Basso in via Plinio 39 va sempre tramandata una volta in più. È una lezione di umiltà e candore, perché mai una volta Stocchetto, scomparso due anni fa all'età di 86 anni, gran visir del bancone cresciuto all'Harry's di Venezia, sostenne di aver escogitato apposta una ricetta diventata eponimo dell'aperitivo milanese recitando la parte del fenomeno. E soprattutto l'episodio costituisce forse il momento esatto a cui far risalire l'inizio della perversione di Milano per il bicchiere del tramonto. Dell'erratica mappa degli aperitivi, nel tempo degradati nell'infernale mercato all'ingrosso dell'happy hour e persino nella diabolica variante linguistica dell'apericena, il Bar Basso è nell'est il centro solido e perfetto LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
"Sta ancora molto nell'idromassaggio?". "Sicuro che questo accappatoio è il suo?". "Quanto è lunga la fila alla doccia scozzese?". Non c'è niente da fare. Siamo a Milano. La calma spirituale non è contemplata nel patrimonio genetico cittadino. E anche rilassarsi, sotto la Madonnina, è uno stress. La prova? Le meravigliose sale delle Terme di piazza Medaglie d'Oro. Nate per garantire un'oasi di serenità "nel logorio della vita moderna" - come diceva il vecchio spot del Cynar - ma diventate nei giorni di punta, causa eccesso di successo, lo specchio delle ansie meneghine. Il posto, intendiamoci, è perfetto. Luci soffuse, musica di sottofondo, profumi nell'aria. Più cascate, muri di sale, bagni di vapore e piscine d'acqua calda e ionizzata. L'ideale per dimenticare che fuori da qui c'è la bolgia dei bastioni. E così è per buona parte della settimana. Peccato che il milanese tipo in cuor suo cerchi il caos anche dove c'è la pace. E tenda a presentarsi ai banconi delle terme Qc (come ai Bagni misteriosi a pochi passi da qui) - assieme a decine di persone che hanno avuto la stessa idea - alle 15 della domenica pomeriggio LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
In zona Wagner il divertimento è un valore da sorseggiare, contagia i ristoranti, le pasticcerie. Chi cerca una movida soft ha l'imbarazzo della scelta. Il tempo corre piano da De Angeli a Pagano, si porta dietro il passato buono che riempie gli scaffali di una biblioteca comunale che è un sollievo frequentare. E con riguardo alla musica non esiste solo il tesoro contenuto nella casa di Verdi, con un cambio di genere si può passare al musical, e il teatro Nazionale ne tiene uno per l'intera stagione, ora sul cartellone vi campeggiano le lettere di Mary Poppins. E il teatro Nazionale è un altro gioiello del quartiere, e un'altra storia: quella della storica famiglia del fondatore, Rota, che a Milano è sinonimo di architettura, anche nell'oggi. Il teatro poi non è una figura solitaria, guarda felice un altro monumento, moderno, della cultura milanese, la Feltrinelli libri e musica, che gli fa compagnia in piazza Piemonte; sono due dei mosaici di un puzzle ampio che caratterizza un quartiere elastico per dimensione, che si allarga inglobando vie che si riconoscono uno scopo comune: far vivere meglio la propria gente LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
In un contesto di fabbriche che diventano locali notturni, poli culturali o pezzi di archeologia industriale la Fratelli Branca Distillerie mantiene uffici, produzione e uno spazio espositivo nella sede di via Resegone. Nata a Milano nel 1845, famosa per il Fernet-Branca - ventisette erbe, radici e spezie in una ricetta segreta che non è mai cambiata dalla sua creazione - , l'azienda è guidata dal conte Niccolò Branca, quinta generazione di una dinastia di nobili e industriali, scrittore, esperto di meditazione, teorico dell'"Economia della Consapevolezza". Il Museo Branca, mille metri quadrati, si può visitare gratuitamente prenotandosi sul sito. Il tour dura un'ora e mezza ed è disponibile in italiano e in inglese. Vengono anche dalla Galápagos per vedere la ruota delle spezie, uno dei pezzi della collezione più fotografati, grazie alla quale si possono toccare con mano gli ingredienti dei prodotti Branca. Ma ci sono anche locandine d'epoca, libri contabili dell'Ottocento, teche con le diverse bottiglie che si sono susseguite nel tempo, testimonianza di come cambia il gusto del Paese LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Sopra il cielo, sotto la terra, attorno il traffico che confluisce e scorre come fa l'energia tra i chakra in quelle indecifrabili mappe anatomiche orientali dove il corpo umano è percorso da fasci di luce. Piazzale Loreto è l'ombelico mistico milanese dove finisce Buenos Aires e iniziano viale Monza e via Padova. Viene in mente Inneres Auge di Franco Battiato, testo di Manlio Sgalambro. "La linea orizzontale/ ci spinge verso la materia/ quella verticale/ verso lo spirito". L'Inneres Auge, l'occhio interiore, invita a ignorare l'orizzonte della città e rivela la verticalità di Loreto che punta verso il basso, nei sotterranei dell'animo umano dove l'incontro tra M1 e la M2 dà origine a un labirinto. Qualunque ingresso si scelga, qualunque tunnel si percorra, una volta scesi è inevitabile l'incontro con Bontà Più, il misterioso cuore di questa oscurità iniziatica. Tra le vetrine a quota mezzanino, un non- supermercato è il tempio dell'ultimo caos. Nel settore slot machine con ascetico disinteresse a decine si privano di ogni avere sin dal primo mattino. Le vetrine sono tappezzate di offerte, esche diaboliche con scatti a colori su carta fotocopiata, le ultime tentazioni sul cammino dell'illuminazione. Un chilo di reale di vitello a solo 5,99 euro, un chilo di fesa di tacchino 7,99, un cioccolatino lo paghi un euro e l'altro è in regalo LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
La storia passa. Porta Romana e le mura spagnole si adeguano. C'è da difendere la città? Loro fanno da bastione inespugnabile. La situazione migliora? Si improvvisano elegante promenade chiusa tra due file di ippocastani, una sorta di Champs Elysée in salsa meneghina. C'è da far spazio al progresso? Nessun problema: le mura fanno harakiri e vengono smantellate, per garantire alle auto l'accesso a Milano. I bon vivant di zona Romana però non hanno dubbi: il maggior merito delle mura spagnole è stato quello di aver fornito a inizio '800 la materia prima (terra e mattoni) per lanciare la mitica Slitta di Monte Tabor, il futuribile marchingegno che ha trasformato il quartiere per qualche anno nel centro della movida meneghina. Attirando granduchi e popolino, pellegrini e teste coronate pronti a buttarsi con il cuore in gola sulle prime montagne russe della città LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Nel quartiere De Angeli-Frua un tempo c'era un villaggetto sperduto nella campagna, di casupole contadine che si chiamava Maddalena, e in mezzo a un crocicchio di un'antica strada che si dirigeva a Vercelli c'era una colonna votiva dedicata a quella Santa che sconfisse la peste. E c'è ancora, e a quelli che non lo sanno è una storia che si può raccontare, insieme a molte altre. Un luogo comunitario fra i più amati è il mercato comunale, coperto da una struttura in ferro originale degli anni venti. Dentro non si va solo per fare la spesa, i clienti hanno poca fretta, chiacchierano con chi mette a disposizione i prodotti e con gli altri che ne approfittano. Entrarci è una scoperta, la qualità, la ricercatezza regnano. Se amate i formaggi è uno dei posti più forniti. La dimensione umana dietro e davanti ai banchi continua ad essere un valore LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Una voce suadente di donna legge i numeri di questa specie di tombola. Sugli schermi c'è l'ammontare dei premi: cinquina 6 euro e 30, bingo 45,90 euro. Gli avventori - sudamericani, donne, anziani preda di signore scollate - li cerchiano con un pennarello blu in dotazione, mangiano costine alle cinque di pomeriggio e protestano con mormorii neanche troppo celati ogni volta che qualcuno vince. Quando una signora fa bingo dopo poche estrazioni temiamo per la sua sicurezza, ma poi tutto rientra. Il gioco crea dipendenza. Questi posti permettono di non smettere mai. Salvo fare i conti alla fine, quando si saranno sprecati i pochi soldi che non si hanno e la solitudine che porta qualcuno a passare così il proprio tempo si sarà trasformata in frustrazione. "È assolutamente vietato fermarsi in sala senza giocare" si legge entrando al Bingo Zara in viale Marche, accolti da un mare di slot machine, dove gli sguardi sono ancora più persi. Durante il nostro viaggio incontreremo pochi posti malinconici come questa palazzina, aperta tutti i giorni fino alle due di notte, che promette "divertimento, svago, intrattenimento, relax" ma prende la disperazione dei frequentatori, la amplifica e li trasforma in fantasmi LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Non esistendo metri ufficiali per misurare la felicità, rimane in vigore la norma di dedurre la prosperità dei popoli dal Pil. A Milano dove ogni cosa è illuminata dal valore immobiliare, la prosperità di un quartiere si desume dai prezzi al metro quadro. Questo significa che negli ultimi due anni tra gli abitanti del nord di Loreto, cioè di Nolo, si deve essere verificata un'impennata esponenziale del buon umore. "Mica tanto, mi hanno aumentato l'affitto" contraddice Serena, di nome ma non di fatto, che in piazza Morbegno, di Nolo il cuore, consuma l'aperitivo. Nolo, negli annunci di vendita e affitto, è diventato come dicono gli agenti con la loro lingua biforcuta, un atout. Dire zona Nolo è come dire vicinanze metropolitana, come piano alto con ascensore, è come dire attico con terrazzo. "Non c'è nulla di complicato, i giovani che hanno meno soldi hanno scoperto un quartiere che costava troppo poco rispetto a quanto offre, e che al contrario ad altri casi di gentrificazione, non è mai stato degradato" sostiene Riccardo Lupelli che a Nolo ( "no la prego, basta, dica che sono di via Venini) vive da 30 anni. Gli edifici di piazza Morbegno, di via Venini e di via Oxilia, ostentano i caratteri tipici della città più borghese. Balconi, facciate primo Novecento con più di una decorazione liberty, la firma del famoso architetto comasco Giuseppe Terragni che al 3 di Morbegno con Pietro Lingeri fu autore di Casa Lavezzari nel ' 34. Più che borghese è persino nobile il tram 1 che in Morbegno fa capolinea dopo aver attraversato i cellulari dei turisti alla Scala, in Montenapo, all'Arco della Pace. Che Nolo però sia più felice lo dicono i bar. In via D'Apulia al Chipa Perù le triple file sudamericane erano un'isolata eccezione accanto a quelle del El Hornero. Oggi la rotonda con aiuola di Morbegno è un disperato giro attorno al parcheggio che non c'è. Il Ghepensimi con i cocktail al basilico (Basilicata Coast to Coast, occhio ai giochi di parole), l'orgia di vassoi da happy hour vecchio stile al popolare Bar Tender, la Caffineria che va dal cappuccio al vermentino, i dieci coperti scarsi de Il Tiglio, ristorante cinese che rifugge l'involtino primavera ma non rincara, la ruspante Taverna dei Terroni nel Mercato Comunale di viale Monza per chi non si riesce a prenotare altrove. Tutto pieno. Bastava che un copy si inventasse l'ossessione di Nolo perché un est che già esisteva piacesse
Più che vederlo lo annusi da lontano. Non importa se c'è una nebbia che non si vede a un palmo di naso o se un black out spegne tutte le luci di Corso Lodi e dintorni. Gli occhi non servono. Per trovare il chiosco di Dorando Giannasi - " Dal 1967 in p. zza Buozzi", recita l'insegna - basta seguire il naso. Risalendo come cani da caccia verso la sorgente del profumo di pollo arrosto (" il più buono di Milano" giurano i clienti) che da diversi lustri è il marchio di fabbrica di questo pezzo di quartiere. La ricetta segreta degli spiedi di Giannasi è vecchia come la storia di famiglia. Arrivata a Milano da Civago, nell'appennino reggiano e sbarcata a Porta Romana 51 anni fa. "C'era questo spazio di 38 metri quadri chiuso da più di vent'anni, Il Comune lo affittava a 200mila lire ogni dodici mesi " ricorda sempre Dorando. Che non si è fatto sfuggire l'occasione e l'ha preso, gettando le basi per un mini-impero fondato su petti e cosce di pollo e chiuso nello spazio LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Dal rischio di chiusura a causa della crisi dell'analogico alla rinascita grazie agli stranieri del quartiere e ai giovani. " Da trentacinque anni vendo rullini, li stampo, sviluppo la pellicola, realizzo diapositive e fototessere. Poi con l'arrivo del digitale avevo pensato anche di chiudere " , dice Emma Canepari, titolare di Speed Photo in via degli Imbriani. Sarà stato in quei momenti più concitati che sull'insegna è comparsa la scritta " Laboratorio digitale". In realtà questo negozio è il paradiso degli appassionati di fotografia e dei fotografi professionisti. Si vendono anche macchine fotografiche usate per vedere com'era quando non catturavamo immagini con il telefono. È una presunta periferia la Bovisa. Lo capiamo dalla questione dei rullini. "Vengono da tutta Milano per rifornirsi nel mio negozio", spiega Canepari, che deve molto a un'alleanza inedita tra persone di altri Paesi e studenti LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
A scarpinare le energie decadono e se entri nel quartiere De Angeli e le gambe sono molli, il pensiero e l’acquolina vanno alle gelaterie di via Marghera, che sono un passaggio obbligato, propedeutico a un giro nel quartiere. Un parametro certo, per giudicare la bellezza di un posto, è la presenza di estranei che lo vanno a visitare. Primaticcio, Inganni, Gambara, sono luoghi comodi per abitarci, tranquilli e ben serviti, ma gente sudata per la fatica di vedere più cose possibili, lì non ne trovi. Al De Angeli la gente ci viene a prendere il gelato, ma non solo, scorci e palazzi da fissare sulle foto ce ne sono un’infinità, corroborati da una storia romantica, densa di notizie. Che poi diversi sono i nomi che si potrebbero dare al quartiere che a volte è solo De Angeli, poi gli si aggiunge Frua, lo si chiama Wagner, Pagano, a seconda delle vie che più si apprezzano e le une fanno concorrenza alle altre. Ma il nome più evocativo, che ha più fascino è quello della Maddalena, perché rimanda a un luogo lontano, bello, marittimo, che d’estate è un sogno. LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Superiamo il divieto di accesso posto prima di una scalinata interna e iniziamo la nostra serata danzante, che deve esserci in ogni viaggio, dal cuore dello Spirit de Milan, in via Bovisasca. Teatro all'aperto e ristorante, il locale sorge dove c'erano le Cristallerie Fratelli Livellara. Entrando si può ancora leggere il cartello "Magazzeno". Erano belle le fabbriche. Questa, nei suoi piani superiori, non aperti al pubblico, si affaccia sulla Bovisa, permette di respirare grazie ai soffitti alti e agli spazi ampi e ci si imbatte pure in un pantografo. Testimone di un'epoca che non tornerà più, lo usavano per decorare i bicchieri. Reso omaggio al passato, dimentichiamo la precarietà del presente con uno swing. Appena ci si avvicina alla pista ci vogliono due secondi per essere invitati a ballare LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Ciminiere e carrettieri. Cavalli e ponteggi. Poi una grande fossa, scale, mucchi di sabbia, gru, sterratori, su uno sfondo a metà tra la Torre di Babele e un formicaio nell'ora di punta. Il cantiere della M4 che fa impazzire gli abitanti di Milano è un deja vu vecchio di un secolo. La prima meneghina alle prese con il caos della città che cambia l'ha ritratta nel 1911 Umberto Boccioni. Lei è una signora affacciata al balcone di casa. Elegante, appoggiata alla balaustra di ferro battuto, quasi inghiottita dalla bolgia che sta di sotto. Non si distinguono nomi di vie. Ma la location de La strada entra nella casa, uno dei capolavori del maestro del futurismo, è chiara: via Adige 23, affaccio su Piazza Trento. L'appartamento dove l'artista ha vissuto dal 1909 al 1912 assistendo in tre anni a una delle più drammatiche metamorfosi del paesaggio urbano meneghino LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Superato viale Bezzi, sulla circonvallazione esterna, c'è una zona cuscinetto che arriva al cerchio dei bastioni, oltre c'è il centro di Milano. Al di qua della circolare c'è una periferia variegata, a volte felice altre problematica. Due concetti di sicuro relativi, il metro del giudizio è ovviamente variabile. Nel chiuso del cervello ogni testa è tribunale si dice da qualche parte, ma se si accetta di vivere in un modello culturale, sociale ed economico di tipo occidentale, e se lo si apprezza più che lo si critica, la maggior parte dei cittadini periferici di Milano non può non dirsi soddisfatta, le contestazioni prima di saturare l'aria di chiacchiere devono sorvolare le periferie delle grandi città europee, valutarne la vivibilità, le opportunità, i trasporti e tutto quanto faccia benessere. Il sistema Milano può competere con qualunque altro. Ho fatto un viaggio a piedi, dal centro di Baggio a una panchina del parco delle Cave, ho continuato con soste in ognuna, e intorno, delle fermate della metro uno. Se disegnassi a mano libera un semicerchio, partendo dal checkpoint di piazzale Brescia, orientandolo a est e facendolo finire su piazza Napoli, il mondo che sta dentro lo definirei, non per i miei gusti, ma per ciò che di solito la gente chiede o lamenta, soddisfacente LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
L'acqua si è già annodata a viale a Monza e fra pochi metri sarà più a nord che ad est, ma qui in via Jean Juarès 22 la Martesana è omonima di quel canale che al di là del pacifico separa, ad est, Manhattan da Long Island. Si chiama Eastriver il progetto con cui Marko Manico (la kappa non è un vezzo ma una scelta dei genitori), 36 anni, ha trasformato una vecchia autofficina in avamposto che anticipa la mobilità del futuro. "Sì, è vero, affittiamo canoe". Eastriver è una stazione lungo la ciclabile, un edificio in mattoni che sembra un'altra cascina. I terreni sono ancora un cantiere, costerà 100mila euro ripulirli del tutto dagli agenti assorbiti dai catorci esausti della rimessa. Tra i finanziamenti, erano arrivati nel 2016 anche i 25mila euro che il comune metteva in palio per start up in periferia. "Ed è venuto Beppe Sala all'inaugurazione nel 2016". Eastriver per ora apre solo il fine settimana. Si riparano e affittano bici, ma il fascino è nelle canoe LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Ritrovo di ex operai, luogo della movida, sede di una manifestazione letteraria in una periferia in cerca di identità dopo la chiusura delle fabbriche. "Sono albanese, ho vissuto anche in Germania, a Milano ho iniziato facendo il cameriere", spiega Herion Talelli, 37 anni. "Tenevo d'occhio questo posto, era gestito male. Poi, in piena crisi, l'ho rilevato io. Ora do lavoro a cinque giovani. Il più vecchio è il cuoco, che ha 32 anni. Nel weekend faccio cento coperti a sera". Il segreto del successo dell'Osteria del Biliardo di via Cialdini, a parte il fatto che si mangia e si beve tra i tavoli ricoperti di panno verde, che si possono noleggiare per giocare, è l'accoglienza. " Gli anziani del quartiere passano tutto il pomeriggio qui. A volte ordinano anche solo un bicchiere d'acqua, ma va bene così". In questa storia di imprenditoria, nostalgia e intuito a un certo punto salta fuori pure la letteratura. " L'idea di usare il locale per ospitare delle presentazioni è nata parlando con uno scrittore di Affori, Francesco Gallone, che mi ha presentato Luca Crovi, che ha ideato con Emanuela Bergomi Cucina Calibro Noir" LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Ciak, non si gira più. La tecnologia è cambiata. Le acque del Canale Redefossi hanno bloccato ogni riconversione immobiliare. E il Cinema Maestoso - il bello addormentato di Piazzale Lodi - è ancora lì. Abbandonato, chiuso da undici anni. In attesa di un lieto fine che per le grandissime sale da proiezione come lui - vecchia gloria di un mondo che non c'è più - è difficile da immaginare. Il suo palmares è da Oscar del riscatto sociale. Porta Romana non è Hollywood. Nel 1912, quando fu aperto con il nome di Cinema Roma, qui era estrema periferia e i grandi quotidiani non inserivano nemmeno nelle pagine degli spettacoli i titoli in cartellone. Il primo gradino sociale viene scalato nel 1939. Il vecchio locale, troppo piccolo, viene abbattuto, sostituito da una mega- sala da 1.800 posti. Il nuovo nome " Cinema Italia" allarga anche geograficamente le ambizioni e la programmazione entra - anche se alla voce "terza visione" - nei tamburini dei giornali. Il riscatto prosegue nel dopoguerra. Le poltrone rosse in velluto - le più comode di Milano, dicono tutti - attirano spettatori da tutta la città. Negli anni '50 arriva l'aria condizionata, prima di molti cinema del centro, nel 1975 spunta l'insegna " Maestoso" e con Yuppi Du di Adriano Celentano si festeggia la storica promozione in "seconda visione", Panta rei, come diceva Eraclito. Tutto scorre LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Nel Dopoguerra avevano base poco lontano in via Conte Rosso i feroci vendicatori armati della Volante Rossa che batterono la città a caccia di ex fascisti. Dopo che l'anima del quartiere divennero gli operai, si okkupò il Leoncavallo e per averlo frequentato morirono nel 1978 Fausto e Iaio in via Mancinelli uccisi dai neri. Per buona parte dei ' 70 e oltre si aggirò tra queste strade il mucchio selvaggio della Banda Bellini regolando i conti a colpi di chiave inglese coi soliti fascisti. Che sotto casa del leader, Andrea Bellini, scrissero " Bellini da vivi, bellissimi da morti". È morto senza mai essere sfiorato Andrea Bellini due anni fa, vecchio di troppa vita in strada, è ancora vivo il Casoretto, quartiere non ricco ma oggi più borghese che popolare. E al Casoretto, ormai vuoto di comunismo, ha riparato a un certo punto un'altra sinistra, la più antica d'Italia. Nell'anno dell'apocalisse che fu il 1992 per il Psi, in via Vallazze 34 venivano salvati come in un'arca destinata ai posteri i semi culturali del partito che allora moriva LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Sono entrato all'istituto della Baggina, ed è di nuovo un vecchietto che mi svela una sfaccettatura milanese: è candido in pantaloni celesti e maglioncino uguale, ha dipinta in faccia la meraviglia, "non me l'aspettavo", dice, e mi viene da pensare che la morte sia beffarda, arriva d'estate, ti sorprende mentre te ne stai nella penombra del soggiorno, col viso illuminato dalle intermittenze della luce di un televisore. " Non ce l'aspettavamo " , associa qualcuno a se, che indica col braccio teso oltre la porta dell'hospice. Parla con un uomo, impassibile dentro il suo completo blu, leggero, di una ditta di pompe funebri; non suda, nonostante il caldo, che anche questo è un mistero, che quelli dei funerali sono eroi indispensabili, non soffrono né il caldo né il freddo, non arricciano il naso, non si arrabbiano e rispondono sempre, a ogni questione, anche la più insulsa, che Dio per questo li ha creati, per far lieve la dipartita. Il vecchietto si attacca al cellulare, si capisce che parla col figlio, e si capisce che ha perso la moglie, si commuove, poi guarda l'uomo in blu e affronta il tema: il giorno fissato per il funerale. Il figlio è già in vacanza, con moglie e figli, ne ha da godere per una settimana, non vorrebbe perdere le ferie pagate in anticipo e affrontare spese ingenti per un rientro anticipato LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Era un salotto frequentato da Alessandro Manzoni, ora è una Biblioteca pubblica all'interno di uno dei parchi più antichi di Milano. La Biblioteca Affori e Villa Litta sono luoghi carichi di storia. Il complesso, costruito da un marchese nel 1687, famosissimo nell'Ottocento grazie al circolo di intellettuali animato da Cristina di Belgioioso, scrittrice giornalista editrice di giornali rivoluzionari e patriota che partecipò al Risorgimento, rischiava di fare una brutta fine. Poi l'annessione di Affori al Comune di Milano - a proposito di cosa è o non è periferia - ha salvato il posto da uno stato di abbandono, aprendolo a tutti. Da enclave della nobiltà, dei ricchi, a meta ideale per gli amanti dei libri e per gli amanti, che possono godere della privacy garantita dall'ampiezza del giardino. L'ingresso è libero LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Sono arrivati in viale Ortles dall’Africa. A piedi, in barca, nascosti sotto i pianali dei Tir in viaggio sull’Autosole. Hanno sfidato il mare, i trafficanti, il deserto, la fame e il dolore per sfuggire una guerra o semplicemente per cercare una vita migliore. La loro strada però non è finita. E i ragazzi ospiti del centro accoglienza Enzo Jannacci, lo storico dormitorio comunale appena dietro la Fondazione Prada, vanno incontro al futuro tradendo il “ verbo” del grande cantautore milanese: non con le “scarp de tennis” ma con quelle da calcio. L’idea è nata quasi da sé: tra i 400 ospiti ( 650 in inverno) della struttura c’erano molti giovani che nel loro paese giocavano a calcio. Con tanta voglia di riprendere a correre dietro a un pallone. Ognuno poi ci ha messo del suo. Le strutture interne hanno iniziato a dare corpo al sogno, studiando come mettere insieme una squadra e chiedendo tutte le autorizzazioni necessarie. Rocco Romano, l’addetto ai valori degli ospiti della Casa di accoglienza, si è proposto come allenatore. Il resto è venuto naturalmente. Il nome del team, per gente che da tanto tempo non ha più una casa, è stato facile da trovare: “ El me indiriss Ortles 69” LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Era il 1927 e il Politecnico lasciava piazza Cavour per andare a Lambrate ad occupare Città Studi, un laborioso e gigantesco cantiere iniziato nel 1915. Quell'anno venne posata la prima pietra, di cui nessuno ricorda più l'ubicazione, avvolta in foglio recante le firme di tutti i membri dell'Associazione per lo Sviluppo dell'Alta Cultura che fondata da Luigi Mangiagalli, definito dai contemporanei "uomo senza requie", si dava come obbiettivo un allargamento democratico degli studi. Tra i membri c'erano Arrigo Boito e Leopoldo Pirelli. Nel nuovo quartiere sarebbero dovute confluire tutte le facoltà milanesi. Pure quelle umanistiche che invece ebbero un altro destino, quello di riunirsi nel 1924 nel vecchio Ospedale Maggiore. Persino gli artisti di Brera dovevano finire a Città Studi, ma come sempre staccarli dalla Pinacoteca fu impossibile. Si trattò allora soprattutto di un grande trasloco di ingegneri di cui si occupò l'Ingegnere per antonomasia, appassionato cronista di tutte le vicende che riguardavano il "noster Politeknik", Carlo Emilio Gadda LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Sulla via Antonio Tolomeo Trivulzio c'è un signore anziano che m'importuna, vuole rifilarmi a tutti i costi la sua analisi sui problemi di Milano e della Nazione. Ha una rabbia e un astio che alla sua età è ingiusto ci siano. Volendo fare i filosofi non è che l'epica dell'odio sia un'infezione arrivata di colpo a infettare una società santa. La fiele c'è sempre stata, basta guardare al passato, tutto, senza la polvere dell'ipocrisia. La società umana naviga da sempre nell'intolleranza, la sopraffazione, fermandosi solo ogni tanto in porti di quiete. Però Milano è sempre andata in senso contrario rispetto a queste onde; lo fa ancora e in questa via della carità che parte da Baggio e arriva fino ai viali Bezzi e Misurata è obbligatorio pensarlo, crederci. Continuando a fare i filosofi, concetto levantino che cozza con la concretezza meneghina, oggi quello che è caduto è il velo della vergogna: essere cattivi non è un peccato. Odiare è bello, legittimo. Ma sentire di odio davanti a questo luogo, il Pio Albergo Trivulzio, in cui per secoli si è praticata la carità è una soma pesante LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Scende leggera la Montestella, fa la gola amara la Ligera, è un omaggio alle vecchie fontane la Drago Verde che va giù come l’acqua nel caldo estivo. Ventidue anni fa, nel 1996, il Birrificio Lambrate apriva con una manciata di bionde fatte fermentare da tre amici, oggi è un impero milanese del luppolo. Cinque soci, quaranta varietà di birra l’anno, due locali di proprietà sempre pieni. Lo stabilimento di produzione e stoccaggio è nascosto in due capannoni affacciati su di un’ansa del Lambro, in un budello di via Sbodio che da settembre aprirà due venerdì al mese per visite guidate LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Vive sopra una bocciofila, quella di Morivione. Cosa che alla sua età - 717 anni - in teoria si dovrebbe apprezzare. Ha conosciuto e dato ospitalità, secondo le voci che circolano in quartiere, a Leonardo Da Vinci. Che sotto la sua protezione avrebbe convinto Lodovico il moro a dare il via al progetto definitivo della Conca Fallata. Le amicizie altolocate e il rispetto dovuto a chi ha così tante stagioni sulle spalle gli sono serviti però a poco. E il glicine di via Verro 2, uno dei monumenti (ancorché vegetale) più antichi e meno conosciuti di Milano, non se la passa - come molte delle piante della nostra città - un gran bene. L'hanno chiuso nel cortiletto di una casa privata. Intrappolato in una sorta di cubicolo claustrofobico dietro un paio di cassonetti dell'immondizia. Lui ha fatto di necessità virtù, adattandosi: ha appoggiato il suo enorme tronco ritorto e segnato dai secoli - pieno del fascino di una splendida vecchiaia - su una sorta di basamento di cemento. Fiorisce caparbiamente ogni anno ( qualche macchia azzurra in mezzo alle foglie c'è anche in questi giorni) nell'attesa - come è stato tante volte promesso - che qualcuno gli riconosca il meritato titolo di albero monumentale, c'è un'apposita legge, la 10/ 2013, salvandolo dall'oblio. Per ora il glicine di Leonardo vive di gloria. LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
La clientela è araba, ma i milanesi la stanno scoprendo grazie a un nodino di vitello perfetto per le cotolette. I prezzi sono convenienti, il che favorisce l’integrazione. La macelleria islamica di via Imbonati è una distesa di polli, fegatini, macinato fresco. All’ingresso ci accoglie una teglia di teste di capretto con i denti ancora visibili e la lingua fuori dalla bocca. « Sono perfette in brodo » , dice un membro del personale, tutti uomini con i grembiuli sporchi di sangue LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Al Pio Albergo Trivulzio per secoli sono stati accolti i meno attrezzati economicamente, e non se lo meritava di essere lo strumento che ha messo in luce l’angolo buio che la città ha covato per anni, è stato l’orzata che ha fatto galleggiare una certa Milano. Una Milano egoista, cinica, arrogante, che c’è stata e ci sarà ancora, come è inevitabile dove la ricchezza raggiunge consistenze estreme. Era inevitabile che sulla via della Baggina arrivassero i vizi del passato, quelli che sono la coessenza del potere LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Dai Promessi Sposi alla Silicon Valley alla milanese il passo è molto più corto di quanto si pensi. Anzi, il luogo è lo stesso. La vecchia tipografia di via Calabiana 6 dove Alessandro Manzoni ha stampato nel 1842 la prima edizione del romanzo ha cambiato pelle. Seguendo passo passo l'evoluzione tecnologica della città. Per un po', finché i libri tiravano, ha continuato a sfornare volumi con successo. Poi - quando l'arrivo del digitale ha rivoluzionato l'editoria - si è rifatta il look, inventandosi vetrina della moda made in Italy a inizio millennio. Tre anni fa l'ultima metamorfosi: il baricentro delle griffe si è spostato verso via Tortona e dintorni e negli 8.500 metri quadri a due passi dallo Scalo di Porta Romana è nato il laboratorio dove nascono i mestieri e gli Archimede Pitagorico del futuro: il progetto Calabiana, uno 'spazio di lavoro condiviso' gestito da Talent Garden dove hanno preso casa alcune delle più promettenti start- up meneghine per muovere, senza spendere soldi per una sede, i loro primi passi LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
La scena del crimine è delimitata dal nastro giallo e nero, Do Not Cross. C'è uno scheletro umano a terra, mezzo ricoperto dalla vegetazione del sottobosco. La botanica forense potrebbe aiutare le indagini, il muschio che ricopre parte dei resti dire a quando risale il decesso, eventuale pollini non autoctoni stabilire che il delitto non è avvenuto qui. "Le ossa sono perlopiù di plastica tranne qualche pezzo, i jeans strappati che indossa invece uno volta erano miei" spiega osservando il diorama didattico dell'omicidio Marco Caccianiga, dipartimento di bioscienze dell'Università degli Studi. È il vicedirettore dell'Orto Botanico di Città Studi e ride mostrando una delle attrazioni più recenti ideate per spiegare l'intelligenza e l'utilità delle piante. Il parco delle discipline vegetali è uno dei fiori all'occhiello dell'università. Affaccia in via Golgi 18 dal settembre 2002, quando fu inaugurato LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Spillo, mascotte del quartiere, è un cucciolo di daino con qualche problema alle zampe. Lo hanno anche portato all'Università di Lodi, dove gli hanno fatto una tac trovando lesioni alla colonna vertebrale. L'unica cosa che si può fare per lui è proteggerlo dagli attacchi dei suoi genitori e degli altri membri di questa "fattoria degli animali" in pieno quartiere Niguarda, a Milano, tenendolo in una zona riservata dell'aia dove può mangiare tutta l'erba che vuole senza doversi difendere dai suoi simili. Lo zoo delle Onoranze Funebri Turati unisce due estremi: la morte e la vita rappresentata dagli animali che si rincorrono e giocano tra loro in questo parco delle meraviglie. Non si respira l'atmosfera triste degli altri zoo, pur trovandosi in un posto dove ogni giorno succede qualcosa di drammatico. "L'attività è stata fondata dal mio bisnonno nel 1892, è stata portata avanti da mio nonno e si tramanda di generazione in generazione", dice Stefano Turati, l'attuale titolare. "Abbiamo sempre avuto animali sia perché ci aiutavano nel lavoro sia perché questa periferia in passato era campagna". Nella nostra visita incrociamo quattro daini, faraone, cani, galline, cavalli, pappagalli, una capra LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
La Baggina è appunto la strada per Baggio, una via antica ma con la forza intatta di sapersi ancora tirare dietro la campagna per addolcire il cemento che fa città Milano. Se la trascina per Forze Armate, Inganni; sulla via Caterina da Forlì si può andare a Bande Nere o Gambara, ci sono due fermate della linea rossa, però se s’imbocca in giù la via Bartolomeo D’Alviano si può raggiungere un posto di cui pochi conoscono l’esistenza a Milano: il quartiere Ebraico. Anche gli ebrei, in zona, ci vennero in braccio alla Baggina, ma ci giunsero in tempi troppo recenti per poter aver fatto un proprio quartiere, e l’anima di Milano non è mai stata votata al ghetto, gli ebrei si sono integrati nel resto della città, così il quartiere ebraico è più una metafora che un luogo fisico, con diverse presenze assorbite in un tessuto sociale multietnico, che concentrano la loro visibilità in esercizi commerciali vocati al cibo Casherut, adeguato alla consumazione secondo i dettami della Torah. Non c’è una differenza sostanziale con Primaticcio o Bande Nere, io ci capito per motivi che non sono religiosi: frequento un piccolo negozio, il proprietario tiene sopra il bancone sempre una challah a forma di cuore. La challah è un pan brioche intrecciato che gli ebrei diffusero anche in Calabria da uno degli insediamenti ebraici più antichi del vecchio continente, la zona grecanica della provincia di Reggio in cui sono nato LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Tariffe ridotte non solo per motivi di età, a favore dei più giovani, ma anche in base al reddito: chi guadagna meno paga meno. Il centro balneare Scarioni di via Valfurva, intitolato a un giornalista abbattuto con il suo aereo durante la Prima guerra mondiale, fa molto per la zona Affori- Niguarda: 28500 metri quadrati, architettura Anni ' 50 in cemento armato senza troppi orpelli ma funzionale, tre vasche scoperte e spazi verdi, punto di riferimento dei ragazzi costretti a rimanere a Milano d'estate. Non tutti partono per i campi estivi, per i viaggi studio o hanno seconde case... Piscine piene, con un’acqua azzurra che sembra mare, tonificante, rinfrescante, ma anche una piscina vuota all’ingresso dell’impianto, metafora delle periferie che sono delle grandi incompiute, pure quando non sono abbandonate a se stesse LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
A ovest di Milano i magazzini militari di zona Forze Armate sono una malattia che si chiama ingratitudine verso gli sforzi, buoni o cattivi, di chi ha lasciato qualcosa. E non è consolatorio sapere che l'incuria sia sintomo che non colpisce solo Milano. Allontanarsi dal degrado di via Olivieri è un sollievo, basta poco a raggiungere Bisceglie, salire sulla rossa e metterselo alle spalle, ma se non sei di fretta puoi allungare il passo, sulla rossa ci si salta anche ad Inganni che è a poco più di un chilometro e ti introduce in un bel viale alberato con case semplici, curate, armoniche, a un quartiere fatto di scorci, che porta il nome di un maestro degli scorci pittorici, Angelo Inganni. LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Sono una trentina, hanno tra i diciotto e gli ottantotto anni e vogliono cambiare il mondo partendo dal "basso" che poi è l'alto: offrire un pranzo a prezzi popolari, ristrutturare una palestra e regalarla al quartiere, fare un po' di compagnia ai bambini rom, fino ai grandi temi della nostra epoca, dall'integrazione dei migranti alla violenza contro le donne. Il collettivo Ri-Make, dopo avere occupato una banca, si è spostato in una scuola abbandonata, il liceo classico Omero a Bruzzano. LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Là dove Milano non è più Milano ma Milano 2, un uomo esce dalla Residenza Acquario, ultima dimora terrena di Raimondo Vianello, e trascinando un trolley suda all'istante nell'umidità che i prati ostinatamente verdi esalano ogni estate da 40 anni e passa. Il bastione esclusivo " da numeri 1" secondo un depliant d'epoca, è con un piede a Segrate. Ma lungo la via dell'ingresso ovest è a Milano, e sono milanesi i ghisa che impugnano la pistola laser forzando il traffico a 40 all'ora fermando uno scooter che va a 50. Intanto il signore col trolley, come tutti gli abitanti di Milano 2, parla a stento. " Ho l'aereo per Palermo, scusi " e ripara nell'aria condizionata di un taxi. LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
"Sembra Central Park, amore?" . "Sì, amore". Il laghetto di Niguarda al Parco Nord è il trionfo degli innamorati, delle famiglie e dei patiti dell'abbronzatura. Un'altra coppia arriva sui pattini, fa uno spuntino al chiosco con i tavolini vista lago e se ne va via sfrecciando. I bambini lanciano gavettoni e fanno la guerra con le pistole ad acqua grazie alle fontane disseminate ovunque. A fine giornata hanno i costumi ancora bagnati e piangono perché non vogliono tornare a casa. LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
La messa inizia alle sette di mattina. Vengono da Porta Venezia, via Padova e da tutta la Lombardia. Le donne hanno il capo velato. I bambini ci chiedono: "Chi siete?" e poi ricominciano a fare i bambini, correndo e giocando nel parco verdissimo dell'ex ospedale psichiatrico Paolo Pini. La chiesa ortodossa di Eritrea, punto di riferimento della comunità eritrea milanese e lombarda, si trova in quello che era il posto dei "matti". 'Da vicino nessuno è normale' è scritto all'esterno. Nelle vecchie cucine della struttura è sorto un teatro. Ci sono anche un ostello, un ristorante, un murale sulla Resistenza. E gli eritrei, che prima celebrano il rito e poi condividono un momento conviviale in uno spazio sotterraneo alle spalle della Cattedrale LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Bagnini non se ne vedono. Ombrelloni e sdraio nemmeno. Eppure anche Milano, non ci sono dubbi, è una città di mare. La prova? Sta lì stampata, nero su bianco, nella planimetria della Metropolitana. Linea gialla, direzione San Donato, dove a due fermate dal capolinea la stazione - "Porto di mare" - certifica in modo inequivocabile come la metropoli sorga, almeno vitrualmente, sulle rive dell’Adriatico. Da un secolo a questa parte i cassetti del Comune sono pieni di decine di studi del sogno impossibile: il mitico canale navigabile Milano- Cremona- Po. Un nastro azzurro di 65 chilometri che dovrebbe consentire di salire in barca al Corvetto, passare una dozzina di conche per poi sbarcare a Venezia senza aver messo piede a terra. L’idea ha iniziato a circolare a fine ‘ 800 quando si è capito che i Navigli non erano più in grado di gestire un trasporto fluviale cresciuto troppo e che l’era in cui la Darsena accoglieva più barconi (70 al giorno) dei porti di Bari e Messina era al tramonto. E mille volte è stata sul punto di essere realizzata: i primi scavi a Porto di Mare son iniziati nel 1919. Ma l’acqua di falda ha invaso rapidamente l’area e i lavori sono stati sospesi tre anni dopo per la gioia di pescatori e bagnanti che hanno preso il controllo del quartiere. La pacchia balneare è durata poco. L’area è stata usata come cava per la ghiaia e poi riempita di terra e piantumata ( corrisponde all’attuale Parco Alessandrini). Un mini- canale di 16 km. è stato scavato tra Cremona e Pizzighettone nel 1972, ma resta un’incompiuta che parte dal nulla per sfociare nel nulla LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Piazza Udine e poi via Feltre e poi il diradarsi delle case dopo il bar bibite e gelati. Nel fitto di una giungla improvvisa scorre il Lambro, il fiume di Milano. Non è il Tamigi, non è il Tevere, ma è pur sempre un fiume e non è male il parco che lo circonda. "Però quando invito qualcuno ad accompagnarmi mi guardano come una matta" LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Non qui nel quartiere di Baggio e a Milano, dappertutto la sicurezza, come la libertà, spesso è un fatto mentale, di cose brutte ne accadono, al centro e nei dintorni, ma se si pensa a quanti milioni di esseri questa metropoli tiene insieme, ci si rende conto che statisticamente ci sia una probabilità su centinaia di migliaia che un fato maligno ti faccia da brigante di passo. Se uno avesse saltato certi programmi in tv, non si meraviglierebbe che la periferia ovest di Milano possa covare un ristoro verde di queste dimensioni, il parco delle Cave. Le spaccate, gli scippi, gli incendi nelle case popolari, sono un suono lontano dalle panchine del parco e gli spacciatori sanno infrattarsi così bene che puoi far pure finta di non vederli. Del metrò rosso di Bisceglie che sta a due passi e ti può portare in centro velocemente, se entri nel parco te ne dimentichi o pensi che tanto starà là ad aspettare anche dopo LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
C’è un’aria vecchia, umana, che spira a Baggio e il suo confine interno è il parco delle Cave: un quartiere che se ne sta tra campagna e campagna, con una separazione che è pure fisica da Milano. Da Forze Armate un po’ di falcate bastano per arrivare al metrò rosso di Bisceglie: un soffio di tempo e stai in centro. Ma nel parco i carpini, le querce, le robinie sono figli delle sirene, cantano il fresco e spirano pace ossimora sul viale che rimanda alla guerra. Se gli impegni non sono urgenti, sono finiti o non ne hai, non puoi resistere al richiamo di un ailanto, di un acero campestre, al placido sussurro delle acque che coprono le vecchie cave. E chi lo dice che a Milano tutto corre, in questo quartiere ti puoi fermare e fare a pezzi gli stereotipi: ciò che si narra sulla città e su Baggio LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Via Palmanova è un'autostrada con la ferrovia in mezzo, taglia in due un quartiere che da un lato è un deserto di verde selvatico rotto dal corridoio di palazzi di via Angelo Rizzoli. Dall'altra è la Crescenzago vecchia e nobile oscurata dalla fama turbolenta di via Padova. L'antichità di Crescenzago ruota attorno alla Chiesa di Santa Maria Rossa fondata nel 1142 e alla sua facciata romanica. È il centro di un paese di campagna con le case basse e le strade in ciottolato e in piazza sul sagrato c'è un matrimonio dove si suda col sorriso in fradici completi fresco lana. Gianni Rottoli, ragiunat, ha 85 anni, è nato qui di fronte e ogni giorno risale da via Salmeggia spendendo un bel pezzo del tempo della pensione per ritornare tra le strade dell'infanzia. "Sa, ormai non conosco più nessuno, mi sgranchisco. Però guardi che quello lì mica si chiama ciottolato, l'è el bescottin de Carsenzàgh". E attacca la storia dei Cereda, stirpe che stava a Crescenzago e posava il miglior acciottolato di Milano LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
"Si sta tranquilli alla Comasina?" . "Non lo so" . "In che senso non lo sa?" . "Che non ho elementi per giudicare" . "La Banda della Comasina, Vallanzasca?". "Mai sentiti". Uno degli avventori del bar vicino al commissariato fa finta di niente. Eppure, solo pochi giorni fa un poliziotto della zona è stato accusato di corruzione e la mala locale ha fatto epoca. "Non bisognerebbe parlare di questa gente" , dice un altro uomo, un magazziniere di origini colombiane. "Gli si fa solo pubblicità". "Però, due soldi in più con qualche rapina ci farebbero comodo", aggiunge una terza persona, che forse scherza forse no. Siamo ai confini di Milano. Basta scendere dalla moto e camminare per qualche minuto per arrivare al cartello che annuncia l'inizio della metropoli. Da una parte c'è la Milano della lotta quotidiana per sopravvivere, dei centri estetici Regina, degli alberghi a una stella, delle pescherie Sapore di mare, dei locali che non sono ancora diventati "coffee house", dei criminali sui quali si scrivono libri e si fanno film. Pochi passi più in là c'è Cormano LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Le highlander dei cieli sono tornate (dopo un secolo di assenza) a volare a Milano. Nessuna di loro, per ora, ha voluto metter su casa - o per meglio dire nido - in pieno centro. Troppa confusione, anche se i tetti dei grattacieli di Citylife e di Porta Nuova, specie quello del Bosco Verticale, sono una bella tentazione. Le cicogne, così, si sono fermate per ora al Parco Sud. Prima sono spuntate un paio di pioniere a valutare lo stato di salute delle rogge attorno alla Vettabbia. Poi - certificata la presenza di rane, dei gamberi della Louisiana nei fontanili e delle ghiotte tartarughine abbandonate nelle risaie dai milanesi in partenza per le vacanze - è arrivato il resto della famiglia. Un bel numero di coppie che ha scelto come base i tralicci dell'Enel, il campanile dell'oratorio di San Fermo, il silos dell'acqua potabile e persino una gru ( in funzione) nella zona di Quinto de Stampi LEGGI l'intero racconto sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Dan Brown dovrà farsene una ragione. Altro che Priorato di Sion, Merovingi e codici Da Vinci. Le radici della polemica sull'eterno femminino nella tradizione cristiana affondano nei fontanili a sud di Milano, dove più di 700 anni fa si è consumato il dramma della santa-eretica di Chiaravalle: Guglielma la Boema, enigmatica erede - vuole la vulgata - della stirpe dei Premslidi. In tanti le furono devoti, come Raffaele Mattioli, il banchiere umanista, ex numero uno della Comit. Sepolto per sua volontà a Chiaravalle, nella stessa tomba - pare - che fu di Guglielma la Boema LEGGI l'intero racconto su Chiaravalle di Ettore Livini, sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Milano, il suo centro se ne sta a soli otto chilometri da qui, eppure se ci capiti in una mattina di brutta stagione, che la nebbia si rammenta di avere avuto un ruolo in Val Padana, Baggio rilascia dalle fondamenta dei suoi edifici più antichi il sentore di un mondo lontano: il sapore di un villaggio dell’Appennino, che pure da qua dista. Anche nei pomeriggi assolati, o nelle sere primaverili di una brezza da campi, il profumo del quartiere è quello di un villaggio, che si distingue nettamente, senza neppure volerlo, dalla metropoli che lo amministra. LEGGI l'intero racconto su Baggio di Gioacchino Criaco, sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Nella rotonda c’è un ventaglio di destini che si offre a chi fugge e che indica Cascina Gobba, Cologno, Venezia. Chi entra si imbatte nell’inevitabile sorte di scoprire, incontrandola da est/ nordest, Milano. Anche oggi il sole nasce sopra l’imbocco della tangenziale alzandosi sopra i cartelli verdi che gli automobilisti consultano controluce come tarocchi. L’amore, la fortuna, la morte. Sale il caldo dal nodo che all’angolo tra via Palmanova e via Padova divide la città dall’oriente. Anche oggi apre l’Antica Trattoria Milano, una specie di agreste casello daziario che dal 1926 è ristorante alla buona. Peppino Novelli ha gli occhiali e i pantaloni alti e la camicia tirata giù stretta nella cintura, come risucchiata dalla patafisica dalle braghe marroni. LEGGI l'intero racconto sull'Antica Trattoria Milano di Simone Mosca, sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale
Il treno. È questo il suono che Giovanni Testori ha sentito per tutta la sua vita. Casa Testori a Novate Milanese, in largo Angelo Testori, si affaccia sui binari delle Ferrovie Nord. L'ingresso della palazzina, venti stanze su due piani con scalone centrale, dà sulla strada. Il giardino sul retro, una grande magnolia, le rose, permette di accedere attraverso un cancello alla fabbrica dei Testori, ancora in attività. "Abbiamo riaperto la Casa quasi dieci anni fa e stiamo ricostruendo il patrimonio letterario e artistico del suo inquilino più famoso", dice Davide Dall'Ombra, classe ' 75, direttore dell'istituzione culturale LEGGI l'intero racconto su Casa Testori di Annarita Briganti, sulle pagine milanesi del nostro quotidiano o sull'edizione digitale