Benvenuti negli Abruzzi, tra campanili e steccati. Invidie e dispetti. Dove l’erba mia è meglio di quella del vicino. Il prato del catino biancorosso sempre più verde. Va così che un duello pallonaro d’Eccellenza, Sulmona contro L’Aquila, strattoni l’orgoglio rattrappito. E oggi a pancia piena centinaia di persone tornino al Pallozzi per calpestare il cemento dei gradoni, soffiare in tribuna con il sindaco Gianfranco, senza tricolore ma con biglietto, sulla corsa dell’Ovidiana. Già vice capolista.
Il giorno di don Paolo, a un filo dai settanta, per aprire il cassetto e cacciar fuori una sgranata stampa di famiglia, imprigionata al Comunale quando, con coppola e paletot, di anni ne aveva meno delle dita di due mani. Zitto e buono a fianco al padre, sputato a Peppone, il baffuto Bottazzi Giuseppe di Giovannino Guareschi. Mondo perduto, grigioscuro e lento. Pigre giornate impacchettate con odori, sapori e il nastrino arruffato delle paste. Lana, pettinato gabardine e velluti. Anni di stoffa, canfora e amido, vestiti buoni fatti apposta per la festa. Con le mamme a casa e i maschi alla partita.
Il rito dello stadio era ingabbiato dal calendario del campionato, ma il settimo giorno partiva sempre uguale: il bagno, a fatica, nella vasca stracolma d’acqua bollente, quasi buona per piegare i fili della Fara. La frizione frettolosa con la spugna rasposa come carta vetrata. Abiti al profumo di nuovo, morbide calze e scarpe lucidate con olio di gomito. Azzimato andavi a messa, cascasse il mondo, anche se inginocchiato sulle tavole pregavi poco. Per niente. Lo spirito maligno era preso dallo scambio sottobanco di figurine lerce e spiegazzate. Che lesto avevi fatto sparire dalla tasca del pantalone. Quello sporco.
Il calcio l’unica religione. Sola passione. Ogni due settimane si mangiava in fretta, c’era da scappare dove la Villa muore, scalare con il cuore in gola la gradinata per rubare il posto più avanti. Quello giusto. Per non perdere le folate sulla linea laterale che la barriera spinata da campo nazista nascondeva agli occhi delle ultime file. Quando il sole spariva alle spalle e l’arbitro insisteva tre volte era tutto finito. Con le ossa umide quasi fossi uno stagno e tirando il naso, come una cappa rumorosa da cucina, tornavi a casa. Dove ti aspettavano i compiti che, povero illuso, avevi soltanto rinviato…
Ben rivista foto sbiadita dei miei ricordi colorati. Tra poche ore quegli spalti torneranno a popolarsi, più rumorosi, screziati e smart. Meno naif e leggeri di allora. Per novanta minuti potremo anche far finta d’esser tornati attori di una domenica slow. Lentissima e senza bombe. Con in palio il derby della vita.
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