Il racconto. La bellezza delle scimmie - la Repubblica

2022-10-16 23:39:44 By : Ms. Ivy Chen

Aveva un’aria malinconica, la ragazza, mentre salutavo portandomi il freddo addosso e lei si alzava garbata e allungava un braccio con delicatezza dicendo una parola di saluto con quella cadenza inglese tipica degli italiani che se ne sono andati via e ancora non hanno capito che non torneranno più. La guardai pensando a quel che mi avevano raccontato. Tutto in lei era come se non potesse sorridere troppo e io pensai che si trattasse di malinconia, la malinconia di una ragazza che passava la vita a combattere fra i bastardi della City. Era proprio diversa da chi cerca solo il successo che qui non arriva mai, ma potevo immaginarmelo: diversamente, i miei amici non mi avrebbero invitato: sapevano quanto potevo essere sprezzante con i servitori del più becero protestantesimo, così mentre mi sedevo immaginai che il suo progetto iniziale fosse semplice: mettere insieme un sacco di soldi eppoi tornare a vivere sul Mediterraneo dove era nata.

Un progetto che via via si era perso nel passato delle buone intenzioni. E comunque lei ora era qui, in vacanza, fra gli amici di un tempo, e mangiavamo prosciutto, formaggi della campagna romana, vino semplice e leggero. Poteva finalmente godersela, mica pagando oro per l’orrore che ti rifilano in quei locali londinesi dove nulla sa di nulla e quando ti portano a mangiare al miglior cinese del mondo, mangi lo schifo cinese di sempre solo che paghi cento euro e devi dire oh che buono, davvero buono, questo sì che è un cinese. No, adesso era tornata sul suo Mediterraneo, e poteva assaporare la vita lenta e le sere arrangiate alla bell'e meglio, situazioni caotiche in cui comunque sbucano formaggi divini e prosciutti di maiali neri, e lei, benché inespressiva e malinconica, diceva che buono questo e che buono quello e sembrava così felice da lanciarsi in confessioni importanti. “Il mio ragazzo poi non mi aiuta, sapete?

Nonostante sia spagnolo e in teoria sappia cosa significa mangiare, ormai se ne frega, pensa solo alle proteine, solo alle proteine, le calcola, le somma, eppoi ne parla con gli amici. Pensa solo alla palestra, al corpo, ai muscoli, e sono tutti molto simili in questo: si sfidano, si osservano, si toccano bicipiti, tricipiti, deltoidi, conoscono i nomi di ogni muscolo e passano ore a guardarsi allo specchio perché per loro è quasi un’arte, un’arte da scultori, certo, davvero, non scherzo, però io non mi diverto affatto: non fanno altro, non pensano a altro, ogni alimento in base alle proteine che contiene, solo immaginando come andrà a tirar fuori il carapace della tartaruga sull’addome, il gluteo o il gemello”. Non sarà mica frocio? avrei voluto dire io, ma non lo dissi, era una battuta troppo raffinata benché apparentemente volgare, e se la ragazza non avesse saputo che mi accoppiavo con i miei simili oltre che con le mie nemiche, magari si sarebbe indiavolata.

D'altronde non sembrava troppo concentrata: divagava e divagando io la osservavo e cercavo di capire di che pasta fosse fatta la sua bellezza. In effetti, adesso mi pareva del tutto inadeguata alla prima impressione che mi aveva fatto. C’era un nonsocché di disarmonico che però non mi seduceva affatto: niente a che fare con quelle disarmonie che mi hanno sempre affascinato. Era semmai una crepa, un lieve cedimento, qualcosa che lei pareva nascondere e questo mi inquietava perché produceva in me una sensazione del tutto diversa da quella che in genere provo di fronte alle cose nascoste che sono sempre le più belle.

No, qui c’era tutt’altro e io non sentivo nessun brivido e vedevo soltanto che la disarmonia era poco vissuta e non c’erano né debolezza né forza, ma soltanto un equilibrio che era impossibile raggiungere e una tranquillità posata per niente autentica: non era neppure buona maniera o galateo, visto che la ragazza non aveva certo studiato l’arte della tavola e usava le mani sul prosciutto e sul calice di vino con poca grazia; ecco, la grazia: questo le mancava, perché poi uno anche se non conosce il galateo basta che sia toccato dalla grazia e allora, qualunque cosa faccia, nel modo in cui la fa, brilla la grazia, ma la grazia in lei non brillava affatto.

In ogni modo, poiché era gentile e accompagnava le parole dei miei amici con simpatia e sempre quel breve sorriso malinconico, io ero propenso a pensare che ci dovesse essere qualcosa che non andava in me, nel mio umore, magari era a causa di un mio desiderio inappagato che vedevo la ragazza a quel modo, e mi torturavo pensando a quale fosse la mia colpa, finché uno dei miei amici, mentre si continuava a parlare di quelle ossessioni proteinico-sportive, disse che lui correva e basta, correva ogni giorno e correre forse faceva bene al corpo ma l’importante era che gli facesse bene alla mente – verità indiscutibile su cui, tanto per mostrarmi partecipe, dissi che sì, mens sana in corpore sano, l’attività fisica fa bene soprattutto all’anima.

Avevo detto una tale banalità e ero così convinto che nessuno mai potesse criticare o mettere in dubbio l’idea che l’unico aspetto positivo dello sport sia la liberazione dalle pesantezze della quotidianità, dalle mortali noie della realtà, che non riuscii a capire ciò che la ragazza disse. Ma la frase era inequivocabile: “la mia trainer dice che correre fa male perché fa cascare la pelle”. Le chiesi: scusa cosa? e intanto mi veniva da ridere perché pensavo che avesse cercato di dire una battuta e tuttavia, poiché ormai il suo italiano era il classico italiano di chi vive a Londra, ossia una lingua perduta, spesso inframezzata di anglismi del tutto superflui, probabilmente aveva sbagliato vocali, forse voleva dire che lo sport fa cascare le palle, e invece lei subito ripeté: “correre fa cascare la pelle, la fa cadere, actually”. Per un attimo anche i miei amici rimasero in silenzio, allora lei spiegò che la sua trainer era esperta in punturine sul viso, anche a lei ne faceva ogni tanto, e dunque sapeva bene quanto la pelle fosse a rischio in certe attività, fra le quali la peggiore è la corsa.

Mentre dicevo queste poche frasi su cui non credevo si potesse essere in disaccordo, pensavo che i miei precedenti dubbi erano risolti, e la vuota bellezza della ragazza adesso trovava una spiegazione: quella sua disarmonia infatti non era per niente naturale, bensì era la conseguenza di un corpo manomesso che dunque non esprime più nulla di ciò che invece l’essere umano ha vissuto. Pensavo che i ritocchi della ragazza fossero stati minimi e per questo quasi non si vedevano, proprio come diceva il mio amico, ma al tempo stesso quei minimi ritocchi avevano alterato per sempre l’equilibrio naturale che noi costruiamo durante la nostra esistenza di sofferenze e passeggere felicità. Questi veloci pensieri però furono subito annientati dalla reazione della ragazza che rispetto alle mie poche parole non taceva affatto come mi ero aspettato e anzi era così in disaccordo che io fui invitato a replicare e a non chiudermi in un altezzoso mutismo.

E così tentai comunque di spiegare la mia posizione e, visto che tutti insistevano, raccontai la storia classica che sciorinavo ogni volta che trovavo a spiegare (con un’immagine folgorante) l’assurdità della chirurgia plastica e l’assoluta estraneità della chirurgia plastica rispetto alla bellezza. Iniziai a descrivere una ragazza che avevo tanto amato quando ero adolescente. Si chiamava Stella e giuro che ancora ricordo di aver sempre pensato che fosse una vera stella e che l’averla persa mi fosse costato tantissimo, visto anche che l’altra donna con cui invece finii per passare parecchi anni della mia giovinezza si rivelò bellissima ma talmente stronza che infatti ormai non la guarda più nessuno, confermando che la bellezza di un tempo era solo la bellezza della giovinezza, del fiore che esplode e matura. Insomma scelsi la bellezza sbagliata, la bellezza che mi accecò, in quegli anni in cui invece Stella brillava in cielo con il suo naso adunco, prepotente di una prepotenza bella, quella della disarmonia naturale che si armonizza fino a sfinirti e sedurti e eccitarti e ucciderti con le più atroci pene d’amore.

Stella era dolce, gentile, suadente e la sua era una bellezza talmente particolare che gli uomini restavano quasi muti quando la vedevano passare. Si portava appresso un fruscio di freschezza e un colore trasparente di gin che alterava gli occhi ovattandoli. Muoveva le anche affilate con una tale singolarità e tutto in lei convergeva in quel naso adunco celestiale, prepotente e dominante, un naso capace di esprimere il potere gentile delle donne che ti prendono e ti accompagnano e ti ordinano qualsiasi cosa e tu esegui, sì, perché così deve essere, così deve andare, sono loro che hanno capito il mistero, loro, le donne, le stelle dell’universo. A vederla sopra di me con quel naso sublime e i piccoli seni appuntiti, le creste iliache che mi affondavano nel ventre, a vederla così io mi sarei consegnato per sempre a lei, tanto bella era, tanto bella sarebbe restata per l’eternità.

Sbagliai, nel momento in cui si allontanò, a non rincorrerla e a finire invece con quella bellezza in realtà bella solo per la sua giovinezza; ma tant’è, così vanno le cose, non si possono avere rimpianti, però morii, davvero morii, quando la rividi anni dopo e tutto era finito, tutto era distrutto, visto che la chirurgia plastica aveva preso il sopravvento e chissà chi l’aveva consigliata e chissà chi non aveva fatto nulla per fermarla e lei chissà perché (chissà perché, dio mio, non lo capirò mai) si era rifatta il naso, oddio si era rifatta il naso, aveva spazzato via quel naso splendido picassiano greco dominante torbido geniale, lo aveva ucciso per sempre e aveva ora un inutile nasino francese del cazzo, una specie di patatina insulsa e ridicola e tutto il viso si era deformato e lei non aveva più quello che era, non aveva più quella sua fatata bellezza di dominio, non aveva più il potere e la bellezza della disarmonia e la bellezza del potere disarmonico che è potere perché s’impone, ti sottomette, ti annichilisce, ti chiede di perderti nel mistero e no, non aveva più la sua bellezza che chissà come si sarebbe trasformata invecchiando, con una vecchiaia bella di dominio, perché ormai non dominava e non volava nel mistero e era soltanto un ragazza perduta nella bolgia inutile della realtà.

Raccontai tutto esaltandomi, entrando nei particolari, appassionandomi a Stella come era stata da ragazza e come sarebbe diventata se non si fosse fatta tentare da quella miseria, descrivendo ogni cosa e abbandonandomi a una corrente di aggettivi e smorfie e muggiti, che per poco non ne descrivevo il sesso, tanto mi ero consegnato al ricordo e all’esaltazione. Feci tutto per i miei amici che mi volevano partecipe e per la ragazza che forse così avrebbe capito e magari si sarebbe sottratta in futuro alle punturine e avrebbe ritrovato la via della sua bellezza. Però noi umani dovremmo sempre ricordarci che non c’è modo di cambiare nessuno quando non vuole cambiare e che le nostre passioni non vanno sprecate, neppure per gli amici, per farli contenti, per sentirci ancora parte di questo pianeta delle scimmie che disprezziamo. Noi umani dovremmo smetterla con lo spreco delle passioni consegnate a una modernità insensata. Pensate che sia la delusione a spingermi a questi livelli di scoramento? Sì, forse avete ragione. Ma perché mai uno dovrebbe esporsi alle delusioni costanti?

Ora io non dovrei giudicare ciò che la ragazza disse, e quindi mi limiterò a riportarlo fedelmente, senza raccontare quel che pensai, anche perché non pensai nulla: in effetti, rimasi talmente sconcertato che affondai nel silenzio e finsi un sorriso ebete sul volto. La ragazza infatti disse, sempre senza mutare espressione, e sempre con quella finta malinconia che ormai avevo capito quale radice avesse (ossia l’impegno sacro nel non muovere i muscoli facciali pur di non alterare l’equilibrio donatole dalla sua trainer), lei, la ragazza che non sorrideva per non far cadere la pelle, disse così: “Non sono affatto d’accordo con la storia che racconti.

Questa Stella forse adesso sta bene. Prima invece aveva un problema psicologico. E io non capisco perché si debba evitare la soluzione di un problema psicologico. C’è molta presunzione in quel che dici. Se la Stella ora sta bene, let's celebrate! Si è rifatta il naso, ha eliminato il problema che le rovinava l’esistenza e ha risolto le sue turbe psicologiche. Voi pensate alla chirurgia plastica in maniera molto superficiale. Non capite che serve anche e soprattutto a livello psicologico. E perché mai la povera Stella non poteva risolvere i suoi problemi?” Come ho detto, non devo commentare questo intervento e non lo farò. Descrivo solo la mia posizione sulla sedia: garbata, eretta, le mani sul tavolo e le dita ferme su cui tenevo posati gli occhi, una posizione forse sorprendente per i miei amici che mi conoscevano bene e sapevano quanto un simile attacco frontale – presunzione e superficialità attribuiti al mio racconto stellare non erano robetta – potesse spingermi a una reazione velenosa. Descrivo anche la risposta immediata che diede invece uno dei miei amici.

Risposta semplice, saggia e anche abbastanza indiscutibile. Ossia: be’, i problemi psicologici forse si risolvono con la psicoterapia, non con la chirurgia plastica. Anche perché se un problema psicologico sembra mostrarsi in relazione a un difetto fisico (se così vogliamo chiamarlo), certamente non è lì che ha avuto origine, e sarà bene guardare a ciò che ha scatenato il problema senza tagliar via il naso. Una risposta indiscutibile, dicevo. Ma non per la nostra ragazza che stavolta sorrise con più evidenza e disse: “e certo, e uno deve spendere molti soldi e molto tempo quando la soluzione è economica e a portata di mano?” Ero pronto a lasciare la stanza. Rimanevo lì però. Ero gentile. Pensavo che fosse talmente stupida che non avesse alcun valore più nulla. E al tempo stesso mi aveva preso un’altra idea, ossia che io fossi proprio inconsapevole e che questa dunque potesse essere un’occasione imperdibile  per capire dove stesse andando il mondo.

Per qualche minuto però mi ero distratto. Lei, del resto, stava dicendo cose gentili, tipo che sì la psicoterapia è importante e bla bla bla e i miei amici cercavano di dire che d'accordo, se uno proprio sta male per un naso, nessuno vieta niente a nessuno e bla bla bla; e quindi erano ragionamenti blandi e di compromesso e non c’era niente che valesse la pena davvero ascoltare. Mi ero distratto perché cercavo di trovare il modo di estorcerle un pensiero forte che potesse spiegare le sue certezze e che, come dicevo, potesse illuminarmi su cose che non avevo mai capito. Insomma, mi ripetevo che avevo sempre disprezzato tutte quelle pratiche senza veramente cercarne il motivo e doveva esserci qualcosa che io non sapevo, visto che invecchiavo e il mondo in cui avevo creduto di vivere era ormai un altro rispetto a quello in cui giovani ragazzine belle potevano pensare di deturparsi il viso e il corpo per inseguire fantasmi.

Ero rimasto all’idea della chirurgia plastica contro l’invecchiamento: un delirio dell’Occidente, avevo sempre pensato. Ero rimasto legato all’idea che avesse a che fare con il grottesco tentativo di andare contro la natura, quella tendenza spaventosa di un tempo in cui si negava la morte, addirittura. E insomma mi ero perso altro. Forse avrei potuto scoprirlo proprio ora. Così, mentre questo pensiero mi aveva illuminato, contro ogni mia previsione parlai. Senza seguire il filo del discorso da cui mi ero allontanato, intervenni. Sempre gentile, accomodante, rispettoso, come mai ero stato e come non mi aspettavo in nessun modo di essere, dissi che non riuscivo a capire perché si parlasse di difetti fisici. Già il mio amico aveva puntualizzato “un difetto, se così vogliamo chiamarlo”. Però bisognava non solo puntualizzare, bensì negare. Perché no no no, non potevamo definirli difetti.

Non esistono difetti. Esistono malformazioni che impediscono di vivere dignitosamente, e quelle sono cose serie. Come potete insomma permettervi di definirli difetti? Avevo detto la cosa giusta a suscitare una reazione, perché la ragazza rispose sicura, come se non ci fosse alcun dubbio: “be’ rispetto alla bellezza, se uno ha qualcosa fuori posto noi possiamo chiamarlo difetto. Se vuoi possiamo usare un altro termine, ma direi che non c’è nulla di male a chiamarlo difetto”. E io dissi che sì, non era una questione di correttezza. Però non capivo in che senso un naso adunco fosse lontano dalla bellezza, visto che per me – lo avevo appena spiegato – il naso adunco di Stella era formidabile, e in generale io per esempio non amavo i nasi piccoli, anzi. E allora lei disse che mi rispettava, ma ero strano, perché evidentemente ero affascinato da cose brutte.

Ma no, risposi, per me quelle cose sono belle. E lei allora sentenziò: “Ok, respect, ma poiché esiste una bellezza oggettiva, il naso adunco non è certo bello, e questo lo sanno tutti”. Ecco fatto. Eravamo arrivati al punto. La bellezza oggettiva. Di nuovo mi persi nella disperazione. Possibile che si fosse arrivati a tanto? Possibile che secoli di riflessione sulla bellezza fossero andati in fumo? E chi la stabiliva poi questa regola? Volevo bestemmiare e invece tacevo. Ero tentato di parlare di estetica. Ma potevo farlo? Aveva senso? No che non aveva senso. Eppure le parole mi uscirono fuori da sole. La storia del pensiero occidentale – dissi sentendomi già ridicolo – ha stabilito in maniera chiara una sola cosa. Lo ha fatto un certo Kant in un libro intitolato Critica del giudizio. Lì il filosofo spiega che non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace. Feci una specie di risolino e loro accennarono smorfie e io capii che ero proprio al capolinea.

Ero presuntuoso, sì. E siccome mi ero accorto, mentre ormai avevo nominato il pensiero occidentale eppoi Kant, che ero quello, ossia presuntuoso, perché che devi fare se hai passato mesi a leggere la Critica del giudizio eppoi ti arriva davanti una babbea che passa il tempo su Tik Tok e ti dice che esiste la bellezza oggettiva? be’ comunque siccome mi ero reso conto della mia caratteriale presunzione, avevo tentato di metterla giù leggera e quasi ironica chiudendola subito con il famoso proverbio. Però ero comunque risultato ridicolo, lo sapevo, e questo mi amareggiava e mi veniva voglia di incazzarmi e mi dicevo ma cosa avresti potuto dire, come puoi resistere, come si potrebbe riuscire diversamente, cosa puoi fare se non dire che cristosanto tu ne sai qualcosa di quella branca di pensiero che ha a che fare con la bellezza e prende il nome da un termine che vuol dire percezione e che anche solo per questo rimanda a ciò che ne intende il soggetto e non è affatto in alcun modo una caratteristica dell’oggetto, non esiste il bello oggettivo, e tu che ridi, ora, stupida cretina imbecille dalla mente torpida e dal viso inespressivo, tu che peraltro ti rifai la faccia e a furia di star ferma per non far cascar la pelle ti è venuto il doppio mento, idiota, ma come cazzo puoi arrogarti il diritto di pensare, anzi non tanto e non soltanto di pensare, ma proprio di esistere, tu, ragazza senza cervello dagli occhi porcini, che pur di non scuotere i muscoli facciali ti sei rimbambita nei muscoli cerebrali e chissà come ti accoppi con quel verme troglodita che fa il calcolo delle proteine con i suoi amichetti che non hanno il coraggio della sodomia, e così manco sanno che gioie si perdono, luridi contatori di proteine dell’anima, chissà come fornichi tu, verme, insulsa inetta inutile rappresentante di una rovina epocale, di un disfacimento definitivo, come diavolo ti permetti di parlarmi con quell’arroganza, c’hai la metà dei miei anni ma avrai letto massimo un Paperinik, idiota, fessa, degenere dalla ragione umana, sottosviluppata mentale, tu che il difetto più grande dovresti curarlo con il trapianto del cervello, anzi ma che dico?

Con l’inserimento di una protesi di anima ché tu l’anima non ce l’hai mai avuta, dentro di te non soffia nulla, perché lo sai che l’anima è un soffio, un vento, un movimento? no, tu non corri, tu sei assente, tu sei carne cascante di punture di schifo, brutto animale senza espressioni e sentimenti. Sarei potuto andare ancora avanti mentre tenevo la testa bassa e in silenzio mi chiudevo negli insulti più spettacolari e intelligenti che mi venivano in mente, visto che ero arrabbiato con me che citando Kant mi ero rivelato stupidamente presuntuoso, stupidamente intellettuale, stupidamente arrogante, mi ero reso ridicolo, e allora volevo dirle che si andasse a far fottere davvero, ma figuriamoci se lo avrebbe fatto, chissà, forse pure facendosi fottere ti casca la pelle no?

Potevo andare avanti ma m’interruppi perché un amico le aveva chiesto in che consistesse la bellezza oggettiva e lei ora spiegava che esistono delle misure, misure precise che collegano le sopracciglia agli zigomi e gli zigomi alle labbra e le labbra al mento e il mento alla punta del naso e così via. E mi venivano in mente Policleto, i Pitagorici, il numero aureo, gli alchimisti e un sacco di cose interessanti e così riuscivo a volare lontano e non partecipare più, né insultarla nel mio pensiero, meglio così perché gli insulti nel pensiero ti si ritorcono contro e adesso mi sentivo io decerebrato e degenere e pensavo di essere pieno di proteine e per purificarmi mi veniva voglia di andare a cercare qualcuno nei bassifondi per farmi violentemente sodomizzare.

Ma non feci in tempo a pensare per bene quella scena perché i fatti correvano più veloci della mia mente e la ragazza alle misure aggiungeva l’idea che quella bellezza unica fosse risolutiva dei problemi psichici perché appunto nessuno poteva più sentirsi diverso e messo ai margini. Era un balsamo per l’umanità insomma. Volevo alzarmi e gridare ma ormai ero diventato così gentile, così rispettoso, così delicato che feci solo un sorriso, mentre uno dei miei amici diceva: ma così diventiamo tutti uguali, la bellezza è qualcosa di particolare, ognuno è diverso, ognuno è fatto a modo suo, non pensi?

E lei senza tentennare e senza preoccuparsi delle conseguenze di quel che diceva, mormorò: e che male c’è a voler essere tutti uguali, è quello il grande obiettivo, essere tutti uguali. Di fronte al nuovo comunismo della chirurgia plastica, non potei più farcela e con grazia mi alzai in piedi fingendo una telefonata. Andai di là, parlottavo da solo, dicevo cose strambe, eppoi mi affacciai e blaterai che dovevo correre giù un attimo, sarei tornato fra pochissimo, mi dovevano scusare. Presi la porta e scesi velocemente le scale, le scale cupe, squallide, tetre e sporche di un appartamento del Pigneto dove non avrei mai più rimesso piede e che tuttavia a me, nella sera dell’Occidente, parvero improvvisamente calde, accoglienti e piene di una bella verità.

Matteo Nucci è autore di romanzi, saggi, reportage. Il suo ultimo libro è Sono difficili le cose belle (HarperCollins 2022)