Non è sfrontato come Pulcinella, non tesse imbrogli come Arlecchino e non ostenta presunzione come Balanzone, è un personaggio rozzo, ma arguto e saggio, è Bartoccio, l’antica maschera perugina, simbolo e spirito di quel Carnevale che vuol dare voce ai più deboli e ai loro desideri, in un tempo dove tutto è finzione.
Bartoccio, probabile storpiatura del nome Bartolomeo, è il colono, una nuova figura del benestante agricolo, ben diversa dallo squattrinato contadino tradizionale, che arriva dalla produttiva zona del Pian del Tevere e appare in città nella seconda metà del ‘600, quando Perugia, dopo la vitalità dell’epoca comunale, inizia a perdere la propria indipendenza a beneficio della corte romana.
Così, ai tradizionali carri allegorici carnevaleschi cominciano ad affiancarsi quelli legati alle vivaci vicende del borioso Bartoccio, di sua moglie Rosa, la bella contadina sempre piena di gioielli, della figlia Suntina e dei suoi compari di avventura. È un buffo personaggio, vestito con un corpetto scarlatto sotto il soprabito verde, con i calzoni corti di velluto nero e le scarpette eleganti abbellite da due grandi fibbie d’argento che, raccontando la propria vita, coglie l’occasione per sottolineare i difetti del mondo. Entra in città, suona e balla con un grosso bastone sotto il braccio, il radicione, che sguaina al momento giusto, lanciando battute sagaci con la spontanea schiettezza che lo caratterizza.
Così, se a Roma la satira nasce con Pasquino, la statua di stile ellenistico sulla quale si appendevano pungenti messaggi diretti a colpire i personaggi pubblici, a Perugia la satira inizia con le bartocciate, gli sferzanti attacchi alla classe politica, alla chiesa, alle istituzioni e a chiunque calpesti i diritti dei più deboli, scritte su fogli, in rigoroso dialetto perugino e lanciate dal carro sulla folla.
Da subito Bartoccio, si dimostra in chiara opposizione con il Governo pontificio, contestato per la continua oppressione sulla vita economica, sociale e addirittura nella sfera privata. Il forte sentimento anticlericale lo porta spesso a sottolineare i difetti e le contraddizioni della figura del prete, tanto che in una delle più famose bartocciate, l’impietoso colono critica un prelato che si traveste da omo, indossando cilindro e cravatta, per bere, mangiare ed entrare in un teatro a vedere le ballerine senza essere riconosciuto.
La censura non tarda a farsi sentire e, alla fine del 1700, la dominazione pontificia indicherà il Bartoccio come un personaggio proibito. Solo nel Risorgimento la maschera riacquista vigore e lo scanzonato contadino diventa il vero e proprio emblema della città, simbolo dell’irriducibile spirito perugino, mai fiaccato dalla sottomissione, ma sempre capace di graffiare, colpire e dissacrare senza alcun ritegno.
Ed ecco che il bersaglio della satira diventa il nuovo potere, secondo le bartocciate tanto era stato fatto per cambiare, quando poi era cambiato solo il padrone: il crollo dell’economia locale, il peggioramento delle condizioni di vita del popolo con le varie tasse e il servizio militare rimanevano, al di là di tutte le illusioni.
Così la maschera del Bartoccio continua a satireggiare fino al secondo dopoguerra, scagliando invettive addirittura su Mussolini, Hitler e Stalin e tuttora rimane nel Carnevale umbro per prendere in giro con garbo i difetti dei perugini di ieri e di oggi e per testimoniare quei legami con la storia cittadina, quell’identità caratteristica, talvolta affievolita dalla civiltà moderna.
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