Dal Congresso segnalano i primi movimenti di Joe Biden. Il presidente eletto spinge perché Capitol Hill approvi subito un altro pacchetto di aiuti alle imprese e ai cittadini travolti dal Covid . In queste ore il «transition team» sta discutendo con la Speaker della Camera Nancy Pelosi , con il leader dei senatori democratici Chuck Schumer e altri parlamentari progressisti per capire se ci sia lo spazio politico per raggiungere un compromesso con i repubblicani.
I partiti si erano lasciati prima delle elezioni su posizioni molto distanti. Pelosi aveva fatto approvare dalla Camera il cosiddetto «Heroes Act»: 2.200 miliardi di finanziamenti con interventi a favore dei redditi più bassi, delle città e degli Stati più colpiti dalla pandemia, oltre a sussidi per pagare gli affitti. I conservatori, invece, si sono compattati al Senato sullo «skinny bill»: 500 miliardi soprattutto per le aziende , piccole o grandi. I due progetti di legge si sono annullati a vicenda, arenandosi sulla campagna elettorale. Adesso, però, le urne sono, più o meno, alle spalle. Biden guarda all’emergenza sanitaria e ascolta le parole del presidente della Fed, Jerome Powell : serve un’operazione di pronto soccorso economico, e serve «ora e qui ». E’ il primo vero test per il nuovo leader americano. A Biden sta bene qualsiasi importo tra i 500 miliardi dei repubblicani e i 2,200 dei democratici, purché si mandi un segnale di reazione al Paese. Ma il problema è che la legge potrebbe essere bloccata da Donald Trump . La Costituzione prevede che per superare il veto del presidente occorre la maggioranza dei due terzi in ciascuna Camera . Biden dovrebbe convincere almeno la metà dei senatori e dei deputati repubblicani a votare contro la Casa Bianca, pur di «soccorrere gli americani». Impresa che, al momento, sembra molto difficile.
Non è ancora finita. Il caos che regna alla Casa Bianca, i ricorsi respinti a raffica, Trump che esautora gli avvocati e si affida per l’ultima offensiva a Rudy Giuliani (che chiede 20 mila dollari al giorno per aiutare il suo amico Donald) , sembrano gli ultimi colpi di coda di un leader sconfitto, assediato nel suo bunker. Ma adesso Giuliani, sobillato da Steve Bannon , ha cambiato strategia. Non cerca più di dimostrare che ci sono state truffe, viste tutte le sconfitte incassate nei tribunali; cerca, invece, di impedire con vari espedienti che gli Stati-chiave conquistati da Biden ufficializzino i risultati del voto nei termini di legge.
Spera che, messo fuori gioco l’esito delle urne , i parlamenti locali (a maggioranza repubblicana) nominino Grandi elettori pronti a incoronare Trump. Mossa disperata, da ultima spiaggia, ma, continuando a bombardare l’opinione pubblica con la disinformazione e le tesi cospirative più fantasiose (compresa quella del furto di milioni di voti per via informatica), il presidente è riuscito a creare un clima nel quale a destra le suggestioni stanno prevalendo sulla realtà: secondo il sondaggio della Monmouth University, il 77% degli elettori trumpiani è convinto che la vittoria di Biden sia fraudolenta . In questo clima si indebolisce anche la certezza che il partito repubblicano, arrivato all’ultimo bivio, sceglierà il rispetto del risultato delle urne anziché seguire Trump nella sua avventura ai confini della democrazia . Quanto accaduto l’altra notte in Michigan ha fatto venire i brividi all’America democratica. Nella contea di Wayne — la più grande dello Stato, quella di Detroit — i commissari repubblicani avevano votato per il blocco dell’ufficializzazione dei risultati elettorali . Qualche ora dopo, sull’onda della reazione furiosa degli elettori esautorati, questi stessi esponenti del partito conservatore hanno capovolto il loro giudizio. Emergenza finita, ma l’allarme rimane: prima del ripensamento, il comportamento eversivo dei commissari era stato lodato non solo da Trump, ma anche dal partito repubblicano del Michigan. Se si è rischiato tanto in uno Stato vinto da Biden con un margine di 150 mila voti, ci si chiede cosa potrà accadere in altri Stati nei quali i margini a favore del candidato democratico sono molto più sottili: Trump ha appena pagato 3 milioni di dollari per ottenere un riconteggio in due conteee del Wisconsin, mentre in Pennsylvania Giuliani ha cambiato di nuovo la linea d’attacco. Ora pretende il congelamento degli scrutini e assale la Corte Suprema dello Stato che ha appena dato torto al presidente sugli «osservatori». Sembrano scenari ai «confini della realtà», ma, con un elettorato conservatore in gran parte convinto di vivere in un mondo parallelo, è difficile avere certezze. Anche in Michigan dove, rientrato il caso della contea di Wayne, adesso ci sarà una nuova battaglia per l’ufficializzazione dei dati dell’intero Stato. La strada per arrivare alla designazione dei Grandi elettori, a metà dicembre, è ancora lunga .
«Compagni e compagne, sotto la guida illuminata del Partito comunista la Cina ha vinto la battaglia contro la povertà estrema». Dirà più o meno così Xi Jinping alla fine di quest’anno, per mantenere la promessa storica: costruire una «società moderatamente prospera» in tempo per la celebrazione del centenario della fondazione del Partito, nel 2021.
Pur considerando tutte le contraddizioni delle statistiche, bisogna riconoscere che la Repubblica popolare in quarant’anni ha fatto uscire dall’indigenza assoluta 800 milioni di persone. Uno dei pilastri della grande crescita economica sono stati i lavoratori migranti venuti in massa dalle campagne , 300 milioni di uomini e donne che furono mobilitati da Deng Xiaoping quarant’anni fa. Hanno alimentato le catene di montaggio nelle fabbriche, costruito i grattacieli delle metropoli, le autostrade e le ferrovie ad alta velocità, trainando l’economia cinese dal sottosviluppo fino al secondo posto nel mondo. Grazie all’abnegazione di questa generazione di migranti, sradicati dalle campagne, i giovani cinesi oggi lavorano nei servizi e nell’alta tecnologia e guidano la nuova fase dell’ascesa verso lo status di superpotenza. Ma ora il nuovo timoniere Xi Jinping vuole che i lavoratori della prima ondata intraprendano una nuova migrazione: rientrino nelle zone rurali rimaste arretrate, per ripopolarle e arricchirle con le loro capacità imprenditoriali e potere di consumo. Al momento il 61% dei cinesi vive in città, il 39% è rimasto in aree rurali e il punto debole della crescita è la diseguaglianza tra i due gruppi. Il Pil pro capite supera i 10 mila dollari l’anno , ma ci sono 600 milioni di cinesi (quelli delle campagne), con un reddito disponibile che non supera i 1.700 dollari l’anno, secondo l’Ufficio nazionale di statistiche di Pechino. Spingendo e incentivando (con investimenti massicci) una parte dei migranti a tornare nei villaggi e nelle cittadine di provincia, il governo centrale conta di replicare il boom economico, questa volta in campagna. Secondo una proiezione del Fondo monetario internazionale , il progetto di Xi avrà successo. Nel 2025 la Cina è accreditata di un Pil pro capite, aggiustato in base al potere d’acquisto, di 25 mila dollari.
Mentre gli Stati Uniti arrivano a 250 mila vittime , oltre la soglia prevista a marzo dal dottor Anthony Fauci, e la Cina – come abbiamo raccontato ieri – ha poche decine di casi che definisce di importazione, nel mondo la pandemia avanza. Ecco una piccola ricognizione globale.
Il Giappone ha raggiunto il proprio record di contagi: sono stati 2.179 nelle ultime 24 ore, 500 solo a Tokyo. Le autorità hanno diramato uno stato di allerta massima. La Russia ha superato oggi i 2 milioni di contagi, quinto Paese più colpito al mondo. Anche in Africa i contagi totali rilevati dall’inizio della pandemia sono 2 milioni, le vittime 48 mila in tutto il continente (1,3 miliardi di abitanti). Alle Isole Samoa , nell’Oceano Pacifico, è stato trovato il primo caso positivo: è un marinaio di ritorno dalla Nuova Zelanda. La Turchia vuole comprare 20 milioni di dosi del vaccino cinese: le autorità sono però in trattativa anche con Pfizer e BioNTech. Il ministro dell’agricoltura danese si è dimesso: voleva sopprimere 17 milioni di visoni aggirando la legge. Il governo ha deciso di abbatterli dopo che è stato rilevato un gene modificato del virus La premier finlandese Sanna Marin ha lanciato un appello all’Europa: senza una strategia comune a tutta l’Unione, i populisti potranno prosperare accusando i governi di aver chiuso le economie e aver fatto crescere la disoccupazione, danneggiando economicamente la popolazione.
Una delle lezioni della catastrofica recessione da Covid è che essere grandi aiuta. Aiuta disporre di una moneta di riserva che investitori di tutto il mondo ricercano e desiderano custodire nei propri portafogli. Questa caratteristica — riservata solo al dollaro, all’euro, allo yuan cinese, allo yen giapponese e alla sterlina britannica — ha fatto tutta la differenza nei momenti più duri di questa crisi . Le banche centrali di emissione di monete di riserva, che non devono temere violente svalutazioni, hanno potuto aumentare vertiginosamente la creazione di liquidità per comprare debito pubblico e privato dei loro Paesi.
La Banca centrale europea da marzo ha comprato il 71% dei nuovi titoli di Stato emessi nell’area per far fronte alle spese della crisi, per esempio. Questa realtà lascia però aperta una domanda: che ne è degli altri Paesi, quelli senza moneta di riserva , quelli emergenti, quelli esposti a crisi di fiducia sui mercati internazionali? Come possono difendersi in una situazione estrema come l’attuale? Non può essere un caso che le uniche due banche centrali ad aver alzato i tassi da marzo ad oggi sono quelle di due Paesi con caratteristiche simili: Ungheria e Turchia. Entrambe rette da autocrati al centro di sistemi opachi, entrambe economie emergenti durissimamente colpite dalla recessione da Covid, entrambe esposte a fughe di capitali in grado di destabilizzare prima il sistema finanziario e poi l’intera società. Entrambe hanno finito per dover imporre una stretta monetaria per arrestare l’emorragia di capitali, quando il contrario sarebbe stato necessario per tenere in vita l’economia. I governi di Ungheria e Turchia si sono chiamati addosso la propria sventura, anche per le loro caratteristiche che li portano a non ascoltare pareri indipendenti e competenti. Ma la situazione di quei due Paesi rimanda a un problema più ampio sul quale Kristalina Georgieva , direttore generale del Fondo monetario internazionale, cercherà di sensibilizzare i leader del G20 che si incontrano virtualmente questo fine settimana . Si tratta di capire cosa è possibile fare per sostenere i Paesi emergenti e soprattutto quelli poveri, che non si sono potuti permettere l’espansione fiscale dei ricchi. Ma su questo il vento potrà cambiare — forse — solo quando l’amministrazione americana di Joe Biden sarà davvero al lavoro.
Disfare l’eredità di Trump non sarà semplice per Joe Biden. In alcuni casi probabilmente non disferà nemmeno granché. Mentre buona parte dell’attenzione delle diplomazie internazionali è concentrata sulle decisioni che riguardano l’accordo di Parigi sul clima, il patto sul programma nucleare iraniano, la gara per la distribuzione del vaccino anti Sars-Covid-2 e in generale il rapporto con la Cina assertiva di Xi Jinping, uno dei passaggi più delicati e di rilievo futuro riguarda le tariffe imposte in questi anni dal presidente uscente sulle importazioni negli Stati Uniti e in generale sulla politica commerciale americana.
In gioco ci sono i contenziosi con la Cina, che sono stati il primo passo di Donald Trump nell’apertura del conflitto con Pechino, e le tariffe imposte sull’acciaio e sull’alluminio anche europei. Queste ultime furono giustificate sulla base della difesa della sicurezza nazionale, impostazione certo opinabile. I Paesi europei si aspettano che vengano rimosse e che passi avanti si possano fare anche su altri dossier, come quello incrociato degli aiuti pubblici di Bruxelles ad Airbus e di Washington alla Boeing. Le penalizzazioni all’export cinese rientrano invece nel quadro di confronto diretto, soprattutto politico, con Pechino, sul quale l’Amministrazione Biden deve precisare una strategia. Non c’è da aspettarsi che la posizione americana si ammorbidisca molto , anche se le trattative per ridurre il conflitto commerciale, che ha raggiunto un limitato primo accordo mesi fa, andranno avanti. In parallelo, il nuovo presidente dovrà scegliere il suo Rappresentante Commerciale e dovrà decidere la nuova posizione della Casa Bianca sulla Wto , l’Organizzazione mondiale del Commercio che il suo predecessore ha di fatto bloccato in gran parte dell’attività impedendo la nomina di giudici nel panel che decide sui conflitti commerciali. Qui si intrecciano la necessità di nominare la nuova director general dell’Organizzazione di Ginevra, nomina ora bloccata da Washington, la scelta dei nuovi giudici e la riforma stessa della Wto che non solo gli Stati Uniti ma anche molti Paesi, Ue compresa, ritengono necessaria per gestire le pratiche anticoncorrenziali della Cina. Sul piano strettamente commerciale , gran parte degli economisti ritiene che dazi e tariffe non abbiano fatto bene al complesso dell’economia americana . Ciò nonostante, per Biden non sarà facile togliere le tariffe imposte da Trump in quanto queste spesso favoriscono settori industriali importanti , forza lavoro sindacalizzata e regioni del Paese che rischiano la disoccupazione. Probabilmente il nuovo presidente non userà più l’arma della guerra commerciale . Ma non è affatto detto che disfi in fretta la tela tessuta da Trump: si prenderà il suo tempo. Forse non vale la pena trattenere il fiato.
La vendita dei diritti di perforazione offshore per 78 milioni di acri nel Golfo del Messico da parte dell’Amministrazione Trump ha generato mercoledì quasi 121 milioni di dollari , con una netta crescita rispetto all’ultima asta governativa tenuta in marzo, quando la pandemia cominciò a deprimere la domanda mondiale di petrolio e gas. Dovrebbe essere l’ultima asta , prima dell’insediamento a gennaio del presidente eletto Joe Biden, che si è impegnato a rientrare nell’accordo di Parigi sul clima e a vietare nuove trivellazioni su terra e in acque federali.
In queste ultime settimane di mandato, Trump si ostina però nella politica di «dominio energetico» per massimizzare la produzione di combustibili fossili. In questi giorni ha avviato in extremis il processo per aprire alla prospezione anche l’Arctic National Wildlife Refuge , in Alaska . Un’area quasi incontaminata, grande quanto la Scozia, habitat di orsi polari e uccelli migratori. E ricchissima di petrolio . Da notare che le prospezioni offshore, come quelle appena assegnate nel Golfo del Messico, richiedono fino a dieci anni per svilupparsi in piattaforme d’estrazione , il che preannuncia un impegno a lungo termine delle compagnie petrolifere nell’area. «Il Golfo ha un lungo futuro», ha proclamato in una conferenza Mike Celata, direttore regionale del Golfo del Messico del Bureau of Ocean Energy Management. «Abbiamo ancora un’enorme quantità di risorse». Bisognerà poi vedere se Biden , e i tribunali federali, confermeranno le scelte di Trump, le cui campagne elettorali sono state generosamente finanziate dalle lobby del petrolio e del gas . L’amministrazione Trump, in quattro anni, ha attuato una deregolamentazione ambientale senza precedenti.
Non sarà facile per Ivanka Trump e Jared Kushner tornare a New York. Prima di partire per la Casa Bianca, la figlia prediletta del presidente e il genero-consigliere avevano un’intensa vita sociale che si intrecciava con i circoli progressisti di Manhattan, il mondo dell’arte e la passerella del Met Gala, l’evento di raccolta fondi del Metropolitan Museum che è considerato «il gioiello della corona sociale» di New York e dove, nel 2018, Rihanna si presentò vestita da Papa. Quattro anni di amministrazione Trump, però, hanno scavato un fossato profondo fra il mondo di prima e quello che i Kushner troveranno una volta rientrati a casa, nel loro appartamento al Trump Park Avenue. «Ci saranno sempre feste a cui saranno invitati, ma saranno loro l’intrattenimento », ha raccontato l’informatissima Emily Jane Fox, autrice nel 2018 del libro Born Trump (leggi tutto l’articolo qui).
(di Andrea Marinelli ) L’autobiografia di Barack Obama ha venduto 890 mila copie nelle prime 24 ore soltanto negli Stati Uniti e in Canada: è un record – almeno per il colosso dell’editoria Penguin Random House – che potrebbe permettere a «Una terra promessa» di diventare il memoir presidenziale più venduto della storia moderna.
Dopo anni di prese in giro (benevole) , l’ex presidente ha superato così anche la moglie Michelle , che aveva consegnato in tempo ed aveva ottenuto un successo planetario: nel 2018 la sua autobiografia «Becoming» riuscì a vendere 725 mila copie in Nord America nel primo giorno, arrivando poi a oltre 10 milioni in tutto il mondo. Bill Clinton , con la sua autobiografia «My Life», arrivò a 400 mila copie (3,5 milioni totali), George W. Bush con «Decision Points» si fermò a 220 mila il primo giorno, toccando poi i 4 milioni. I numeri di Obama confermano tuttavia la scelta di Crown, il marchio di Penguin che le ha pubblicate e che nel 2016 si aggiudicò i due libri per circa 60 milioni di dollari . «Siamo entusiasti di questo primo giorno», ha commentato l’editore di Crown David Drake. «Le vendite riflettono l’entusiasmo diffuso che i lettori hanno mostrato per le anticipazioni di questo libro scritto straordinariamente bene». Il record assoluto è tuttavia irraggiungibile: se lo conquistò nel 2007 l’ultimo libro della saga di Harry Potter – «Harry Potter e i doni della morte», il settimo libro pubblicato da J.K. Rowling – che riuscì a vendere 8 milioni di copie nelle prime 24 ore .
Il Dipartimento della Giustizia Usa – come abbiamo segnalato ieri – ha lasciato cadere le accuse contro l’ex ministro della Difesa messicano Salvador Cienfuegos , ritenuto colluso con i cartelli. Ecco il seguito, non certo positivo.
Il Messico, come ritorsione, ha minacciato di espellere gli agenti americani e Washington ha ceduto liberando l’ufficiale. Dietro le quinte c’è stata una vera trattativa. Difficile credere che l’incriminazione, basata su intercettazioni e lunghe indagini, fosse debole. Infuriata la Dea, l’agenzia anti-droga , perché ritiene che la mossa sia un segnale di debolezza e un premio all’impunità in un paese dove le coperture in favore dei criminali sono il Problema. Agli Stati Uniti sta a cuore la sicurezza nazionale e dunque hanno l’interesse a mantenere un rapporto solido con l’establishment militare a sud del Rio Grande . Gli americani fanno ben poco per contrastare la domanda enorme di stupefacenti, preferiscono l’opzione muscolosa che serve (anche ad altri scopi), ma non blocca il traffico.
Una civetta acadica ha viaggiato obtorto collo per quasi 300 km da un bosco di Oneonta fino al centro di New York. L’hanno scoperta i lavoratori che stavano allestendo l’albero di Natale al Rockefeller Center a Manhattan. Gli ornitologi del Ravensbeard Wildlife Center l’hanno presa in consegna e rifocillata «con tutti i topi che voleva». Dopo una settimana di odissea la civetta è in buone condizioni. Naturalmente è stata ribattezzata Rockefeller. Presto farà ritorno al suo bosco. Chissà che racconti.
(di Guido Santevecchi ) E’ stato un anno durissimo per l’aeronautica militare di Taiwan. Le incursioni dei jet dell’Esercito popolare di liberazione cinese oltre la linea mediana dello Stretto hanno costretto i caccia dell’isola ad alzarsi in volo 2.972 volte tra gennaio e ottobre.
Quella di Pechino sembra una strategia mirata a logorare l’avversario, perché ogni volta che un intercettore taiwanese decolla all’inseguimento di un apparecchio cinese, la sua vita operativa si accorcia. Anche i piloti sono sotto stress . Ci sono stati sette incidenti mortali dall’inizio dell’anno. L’ultimo martedì sera, quando un F-16 è scomparso dai radar subito dopo il decollo. Il pilota, un colonnello di 44 anni , era molto esperto e la sua fine ha creato uno choc a Taipei. E’ stato deciso di mettere a terra l’intera flotta di 140 F-16 , che costituisce il grosso della difesa aerea dell’isola, per indagare sulle cause dell’incidente. La stampa di Pechino commenta sprezzante che l’aeronautica dell’isola ribelle è impreparata e cerca di addossare la colpa dei suoi fallimenti ai «voli legittimi» dei caccia dell’Esercito popolare di liberazione.
Pochi giorni fa il Dipartimento di Stato americano ha tolto il Movimento islamico del Turkestan orientale (Etim) dalla lista nera del terrorismo. Una fazione estremista composta essenzialmente da musulmani cinesi uiguri e con una forte presenza in Siria, al fianco della guerriglia. Washington ha giustificato la cancellazione sostenendo che il gruppo non è coinvolto da tempo in attività eversive. Pechino ha protestato in modo veemente .
E’ evidente che si tratta di una scelta politica e diplomatica nei confronti della Cina, l’ennesimo schiaffo nella battaglia infinita. Secondo alcuni analisti i cinesi hanno usato il pretesto del terrorismo per reprimere l’intera comunità islamica dello Xiniang, ben note le denunce sui campi di prigionia e arresti arbitrari. E c’è chi sostiene che fosse stato un errore inserire Etim nell’elenco fin dal 2002. Alcuni dei suoi membri finiti a Guantanamo erano stato poi rimessi in libertà e inviati in Paesi terzi perché giudicati non pericolosi. Rifugi in Siria: non si esclude neppure – è una tesi – che i militanti cinesi possano lasciare i rifugi siriani e turchi per trasferirsi in Afghanistan nell’ambito degli accordi di pace.
Crimini tenuti nascosti dagli eserciti ed eserciti che tentano di riparare ai danni fatti. La prima notizia riguarda l’Afghanistan, dove è ufficialmente emerso (della faccenda si parlava già da un po’) come le forze speciali australiane abbiano ucciso illegalmente 39 persone tra il 2005 e il 2016 . Una rivelazione che segue un’indagine di quattro anni da parte delle Forze di difesa australiane che, dopo aver investigato su 57 casi, hanno raccolto le testimonianze di centinaia di persone e hanno esaminato più di 20 mila documenti.
Parlando da Canberra , il generale Angus John Campbell ha ammesso che «i casi accertati mostrano informazioni credibili su crimini di guerra dato che le persone uccise sono civili». Si sospetta che le vittime includessero prigionieri e agricoltori. Un crimine che rischia di rimanere impunito, a maggior ragione se si considera che dei 25 autori dei massacri identificati, alcuni sono ancora in servizio. Il rapporto ha anche rilevato che nessuno degli omicidi è avvenuto durante «scontri armati». Prima che il rapporto fosse pubblicato giovedì, il primo ministro australiano Scott Morrison aveva parlato con Ashraf Ghani, il presidente dell’Afghanistan, per scusarsi per quanto accaduto . Su un altro fronte, quello iracheno , l’esercito Usa ha rilasciato ad Airwars, società britannica senza scopo di lucro che lavora per monitorare e valutare le azioni militari nelle zone di conflitto, le coordinate geografiche per quasi tutti i casi confermati di danni e morti civili in Iraq e Siria. Si tratta di 341 casi di danni civili e circa 1.400 morti civili dal 2014 al 2019 . Sono i morti dei raid anti Isis condotti dalla coalizione a guida statunitense. I dati mostrano quando e dove si è verificato un particolare evento e semplificano il processo di ricognizione dei soggetti vittima di un attacco specifico. Prove che potrebbe potenzialmente aprire la porta a scuse formali e pagamenti di risarcimento da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati. Ma è ancora presto per dirlo. L’ex portavoce capo della coalizione , il colonnello Myles Caggins, consegnando i dati ha spiegato che il motivo principale dietro la decisione di rilasciare questi dati ora è la trasparenza. «Prendiamo ogni accusa di vittime civili con la massima serietà».
Tensione continua in Thailandia dove improvvise rivolte portano scompiglio, soprattutto nella capitale Bangkok, lasciando tracce e slogan su palazzi e angoli cittadini. Da mesi studenti e giovani professionisti chiedono riforme scontrandosi con un regime formalmente democratico che però appare sordo a ogni istanza di cambiamento. In particolare per quanto concerne il ruolo della monarchia nel Paese, difesa e protetta da una legge sulla lesa maestà che prevede fino a 15 anni di carcere per chiunque osi criticare il re, considerato ancora una figura semi divina.
L’ultimo episodio , riportato dalla Bbc , documenta un «attacco» a colpi di vernice contro il quartier generale della polizia. La facciata dell’edificio è stata trasformata in pochi istanti in un patchwork di colori e frasi anti monarchiche e contro il governo di Prayut Chan-o-cha, l’ex generale che ha «istituzionalizzato» il suo colpo di Stato del 2014. La polizia, di fronte all’assalto colorato , ha saggiamente deciso di non intervenire. Così, con una semplice mano di bianco, l’indomani la gran parte delle «offese» erano ormai illeggibili. Tuttavia la tattica guerrigliera dei ribelli, ispirati dai simboli di Hunger Games , e in contatto con i coetanei di Hong Kong e Taiwan, appare difficile da arrestare. E promette nuovi disordini in un Paese, la Thailandia, che non ama il caos.
Di quanti decenni sembra riportarci indietro — e in epoca di didattica a distanza forzata, poi — il pensiero dei gessetti per la lavagna ? Eppure in quest’epoca di culto dei brand, anche i gessetti hanno la loro Ferrari: i giapponesi Hagoromo, apprezzati — mostra un documentario su Youtube visto da 18 milioni di persone — soprattutto dagli accademici di tutto il mondo, facoltà di Matematica. Qualcuno giura che sia «impossibile scriverci un teorema falso».
E il fascino di questi gessetti misteriosi è tale che questo video — un video di matematici che parlano di come scrivono i loro gessetti — non strappa nemmeno uno sbadiglio ma solo tanta voglia di impugnare un Hagoromo e scrivere un teorema dopo l’altro su una lavagna gigante, qualunque sia il nostro rapporto con la matematica. Il New York Times ci ha dedicato un piccolo reportage in questi giorni: è tra i pezzi più letti della settimana. Come è possibile? C’è un ingrediente segreto. Anzi, tre: la formula dell’impasto è composta da sette voci; se ne sanno solo quattro, e sono carbonato di calcio, argilla, collante e polvere di gusci d’ostrica . Come nelle varie leggende sulla Coca-Cola, la ricetta è nota solo ai produttori di Hagoromo: gran parte del lavoro nell’officina dei gessetti è stato fatto per molti anni da due gemelli identici all’opera in un piccolo laboratorio di Nagoya, in Giappone, fondato nel 1932, che ora è chiuso ma che è facile immaginarsi come la Fabbrica di Cioccolato di Willy Wonka . L’anno d’oro: il 1990 , in cui erano stati formati, quasi a mano, 90 milioni di pezzi . Poi un costante declino, anche grazie all’informatizzazione della didattica — e alla difficoltà di ampliare la rete di vendita, perché per anni il solo modo di comprare gessetti Hagoromo era andare in Giappone, o mandarci un amico —. Nel 2014 la famiglia Watanabe, terza generazione di produttori di gessetti, chiude lo stabilimento . Dopo varie schermaglie i gessetti Hagoromo sono stati salvati da un sudcoreano , Shin Yeong-seok, che li importava a Seul e ora li produce a 20 km dal confine con la Corea del Nord. Gli era bastato trovarli in aula ai tempi del suo PhD in Giappone per rimanerne, racconta, «ipnotizzato». Watanabe finì per vendergli, a pochissimo, macchinari e ricetta . Il rilancio fu salvato — davvero — da una pioggia di ordinazioni: un passaparola tra i matematici di tutto il mondo , allarmati per la chiusura della Wonka dei gessetti, ne avevano ordinato forniture da ingrosso, per non restare senza. Il lieto fine è quasi da favola: anche i due capireparto gemelli, vicini alla pensione , si sono trasferiti in Corea nel 2015, e stanno ogni giorno vicini alle macchine che hanno fatto andare per tutta la vita.
(di Paolo Salom ) Punito per una relazione extraconiugale . Nemmeno le scuse pubbliche sono bastate. Masahiko Kondo , divo del J-Pop anni Ottanta, oggi maturo interprete apprezzato soprattutto dalla generazione dei cinquanta-sessantenni, resterà un po’ senza lavoro, possibilmente chiuso in casa a riflettere sul suo «errore di giudizio». Ma non crediate che sia stata la consorte umiliata (pubblicamente) a imporre la reprimenda.
Ammissione, scuse e punizione sono state emesse da un «tribunale» assai speciale: l’agenzia che cura la sua carriera, ovvero la potentissima Johnny & Associates. «Il comportamento di Masahiko Kondo — dice un comunicato della società più nota nel mondo dei talent nipponici — è stato irresponsabile, un esempio di leggerezza e mancanza di senso del ruolo». Il cantante cinquantaseienne , finito settimana scorsa sulle pagine di un settimanale scandalistico, ha ammesso la sua colpa promettendo di «riflettere» sul proprio errore. Che, attenzione, non è tanto legato al fatto in sé: non è (almeno per quanto concerne il giudizio sociale) la scappatella a suscitare scandalo, quanto che sia stata esposta pubblicamente. In questo modo, non solo Kondo ma anche l’agenzia che lo rappresenta si è trovata a gestire un danno di immagine. In poche parole, ha «perso la faccia ». Dunque, ecco la punizione che, almeno per noi occidentali, appare quanto meno autolesionista: senza contratti, niente guadagni. Per nessuno. Ma così funziona nel Sol Levante: e non solo per dipendenti e operai che appaiono legati a doppio filo con le istituzioni per le quali lavorano e alle quali devono «fedeltà assoluta», come antichi samurai. La stessa logica è applicata anche agli artisti . E qui tutto si fa incredibilmente complicato, data la natura stessa dell’attività, dei contatti e dell’attrazione che le persone famose generano intorno a sé. Ve la immaginate in Italia un’agenzia che rappresenta questo o quella artista «sospendere» il proprio beniamino/a per una storia di infedeltà? Più cinicamente, saprebbe sfruttare l’inevitabile cascata di pubblicità aggiuntiva (e gratuita).
Ci sono poche cose che un jogger detesta più della mascherina. La neve, piuttosto. Un cane che insegue alle calcagna, meglio. Ma correre la domenica nel parco affollato con bocca e naso coperti, accidenti, proprio no. La pandemia però non fa sconti a nessuno: nemmeno il runner più veloce è in grado di sfuggirle. E allora al popolo inferocito dei corridori imbavagliati viene in soccorso un pezzo del New York Times , a firma di Gretchen Reynolds, runner lei stessa, che riporta studi recenti in favore dell’uso della mascherina anche quando si fa sport aerobico all’aperto .
Se la mascherina è di tessuto, chirurgica o filtrante (in Italia le chiamiamo FFP2, negli Stati Uniti N95), non impatta negativamente sugli allenamenti, nemmeno i più intensi . La scienza, in assenza di pandemie significative prima di quella di Coronavirus che da marzo ha stravolto le nostre vite, non si era mai preoccupata di come la mascherina condiziona un work out ben fatto (qualche studio si era occupato di chi è costretto a usarla per lavoro, chi ad esempio maneggia vernici o è alle prese con il rischio di esalazioni). Però correre, andare in bicicletta o fare power walking (camminata veloce) è un’altra cosa. I risultati dello studio, pubblicati lo scorso settembre sullo Scandinavian Journal of Medicine&Science in Sports , derivano dall’osservazione di 16 maschi adulti esaminati mentre si allenano al Rambam Health Care Campus di Haifa, in Israele. Battito cardiaco, pressione del sangue , saturazione, spirometro, nulla è stato loro risparmiato. Una sessione a volto scoperto, una con mascherina. Le variazioni nel risultato degli esami, tra l’una e l’altra, minime. La mascherina, cioè, non fa fare più fatica né costringe alla disidratazione più rapidamente . Solo il modello N95, più attillato e avvolgente, aumenta il livello di anidride carbonica nel fiato dei corridori. Nessuno di loro, però, ha lamentato mal di testa o problemi respiratori. Un secondo studio, pubblicato questo mese dall’International Journal od Environmental Research and Public Health e svolto su 14 «cavie umane», conferma le risultanze del primo. La morale la trae il dottor Epstein da Haifa: «Non abbiamo più alcuna scusa per toglierci la mascherina quando facciamo sport outdoor in un luogo affollato ». Prosit.
Quante vite può avere (e raccontare) un oggetto banale come una borsa della spesa? Almeno quattro nel caso dei tipici borsoni africani in raffia o plastica a strisce bianche e rosse, oppure bianche e blu. La loro prima vita si è concentrata per secoli nei mercati affollati del continente.
L’ultima viaggia sulle passerelle tra la Nigeria e New York e ha il mondo come palcoscenico. Nella vita di mezzo quelli che erano dei borsoni senza nome ne hanno guadagnato uno: «Ghana must go». Un appellativo che evoca una storia che nessun ghanese ha mai dimenticato e che continua a tramandarsi: risale al 1983, quando il governo nigeriano ordinò l’espulsione di tutti gli immigrati, la maggior parte — oltre 1 milione — ghanese. Masse di indesiderati cominciarono a recuperare le loro cose in fretta e furia e a riempire quelle che i nigeriani — secondo alcuni — cominciarono a chiamare con disprezzo «Ghana must go». Una vicenda immortalata anche nell’omonimo film di Nollywood. Stesso titolo del romanzo intenso di Taiye Selasi, tradotto in Italia «La bellezza delle cose semplici» per Einaudi. Queste borse , capienti ed economiche, diventarono così un simbolo di esclusione e intolleranza. Non stupisce che per alcuni anni siano quasi scomparse: nessuno più le voleva . Ma poi sono tornate, più pervasive di prima: usate per spostarsi, fare la spesa e viaggiare anche all’estero. Talvolta capita di vederne alcuni esemplari pure negli aeroporti, per quanto alcune compagnie le abbiano vietate. Sono diventate ormai una moda, esportata, imitata ed elaborata in più varianti, anche in vestiti e copriletti. Un capo icona che si prepara ora a fare il salto nell’alta moda: la Bbc pubblica foto straordinarie realizzate dal nigeriano Obinna Obioma alle creazioni glamour di due sue connazionali che vivono a New York: la visual artist Chioma Obiegbu , e la stilista Wuraola Oladapo. Si vede il «Ghana must go» vestire dai piedi alla testa: nella sua trama, riflessioni non scontate sulle migrazioni.