In seguito al successo del Batman di Tim Burton e alla popolarità di storie a fumetti come Il ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller, nel 1989 DC Comics decise di dedicare una terza serie regolare mensile all’uomo pipistrello, ma con una caratterizzazione ben precisa: Batman: Legends of the Dark Knight (in Italia nota come Le leggende di Batman) fu pensata infatti per ospitare autori sempre diversi per ogni story arc, che realizzassero storie con un piglio più autoriale, senza alcuna apprensione per la continuity.
Legends of the Dark Knight si affermò così presto come una delle più amate collane di Batman di tutti i tempi, continuando la sua corsa fino al 2007 e raccontando storie ambientate nel passato, nel presente e nel futuro del personaggio o dei suoi comprimari e nemici. O persino in realtà alternative, con alcune delle versioni di Batman più particolari di sempre.
Nei 214 numeri della collana (a cui bisogna aggiungere Annual e speciali vari) trovarono così posto classici autori di Batman – liberi di raccontare storie fuori continuity – come Dennis O’Neill, Doug Moench e Archie Goodwin; giovani in rampa di lancio ma con una voce già molto forte, tra i quali Grant Morrison, Garth Ennis, Warren Ellis e Tim Sale; fumettisti provenienti da mondi diversi da quelli dei super eroi, come Bryan Talbot, Matt Wagner e Ted McKeever.
Magari non tutto quello che è stato pubblicato nel corso di 18 anni è stato all’altezza della fama che Batman: Legends of the Dark Knight si è creata nei suoi primi anni. E alcune cose sono sicuramente invecchiate non benissimo, a leggerle con lo sguardo più smaliziato di oggi. Restano però tante perle, alcune ancora ben ricordate dai fan, altre forse in parte dimenticate. Ne abbiamo selezionate dieci, le più meritevoli a nostro parere.
A dimostrazione di quanto il successo di opere come Batman: Anno uno fosse stato determinante per il lancio di Legends of the Dark Knight, la prima storyline della testata si può considerare quasi complementare alla storia di Frank Miller e David Mazzucchelli. Sciamano è infatti ambientata praticamente negli stessi giorni, e racconta la formazione di Bruce Wayne come vigilante da un altro punto di vista, decisamente più esoterico.
Nella storia, troviamo infatti un giovane Bruce Wayne – appena ritornato a Gotham City dopo il suo giro per il mondo ad affinare le proprie capacità – mettere in pratica le sue ancora acerbe doti da detective per rintracciare un misterioso assassino che utilizza una maschera sciamanica. Una maschera legata al misticismo dei nativi americani del nord e in particolare a una tribù in cui il ragazzo ha vissuto una parte del suo periodo lontano dalla sua città, tempo prima di diventare Batman.
Tra i più importanti autori – e conoscitori – di Batman di tutti i tempi, Dennis O’Neill optò per una trama appassionante dalle atmosfere mystery e con più di qualche colpo di scena ben riuscito, quasi a voler introdurre i lettori alla testata in modo soft, prima di storie nel prosieguo della collana che avrebbero maggiormente spinto sul pedale dell’acceleratore.
Anche la scelta di un disegnatore come Ed Hannigan sembra andare in questa direzione. Pur privo di grande personalità, l’auotre era dotato di uno stile molto d’atmosfera e di un ottimo senso per la narrazione, che in alcuni passaggi richiamava in modo neanche troppo velato il Mazzucchelli di Anno uno. Insomma, partiamo da buona base sostanziosa e rassicurante e solo dopo pensiamo a sbizzarrirci con la fantasia, avranno pensato gli editor della testata e i capi di DC Comics dell’epoca.
In ogni caso, Sciamano resta a tutt’oggi una storia fondamentale per la mitologia del Cavaliere Oscuro, per il modo in cui arricchì la mitologia del personaggio in un momento di ricostruzione, ponendo allo stesso tempo le basi per anni e anni di storie, non solo a fumetti (basti guardare le forti similitudini fra la sceneggiatura di O’Neill e alcuni passaggi della trilogia cinematografica di Christopher Nolan).
A un anno di distanza dall’enorme successo di Arkham Asylum: Una folle dimora in un folle mondo, in pochi si sarebbero aspettati un ritorno di Grant Morrison sulle pagine di Batman tanto spiazzante come avvenne con Gothic. Con il suo breve ciclo per le Leggende di Batman lo scrittore scozzese giocò pericolosamente con il camp e mise in piedi una storia dove, partendo da diversi cliché dell’horror, trovava spazio praticamente di tutto: un serial killer di bambini, vecchie maledizioni legate a monasteri austriaci dove si praticava ogni forma di perversione, la minaccia di un ritorno della peste nera, una guerra tra case mafiose, architettura magica, patti con il diavolo, la traumatica infanzia di Bruce Wayne in collegio, una nave fantasma piena di cadaveri, sogni premonitori e così via.
Per rendere esplicita la volontà di giocare con l’eccesso la sceneggiatura riuscì perfino a infilare, nella sequenza più drammatica di tutta la vicenda, una complicatissima e del tutto inefficace macchina di Rube Goldberg, con tanto di cattivo di turno che ci tiene a spiegare per filo e per segno il suo machiavellico piano di conquista dell’immortalità. Morrison si divertì un mondo e punteggiò lo scorrere della storia con sprazzi di umorismo surreale.
A rendere l’operazione ancora più incisiva ci pensò Klaus Janson, qui in veste di disegnatore unico. Dopo aver segnato la decade precedente inchiostrando Il ritorno del cavaliere oscuro, qui il disegnatore fu alle prese con una lettura dello stesso personaggio agli antipodi di quanto fatto con Frank Miller. Niente più cupezza, ricerca di realismo o nerissima satira, quanto una folle avventura che sarebbe benissimo potuta essere presa di peso da un film della Hammer. Dimenticatevi vigilanti rocciosi e grossi come armadi alla guida di carri armati per le strade di una Gotham City da zona di guerra. Il Batman di Gothic è naïf, fuori luogo nel suo ridicolo costume. Il suo volto si deforma in mille smorfie di terrore – in una storia simile i momenti jump scare sono inevitabili, anche per un vigilante cupo come il nostro.
Gothic rappresentò per Morrison e Janson una scusa perfetta per sperimentare qualcosa di nuovo e diverso. Un Batman divertente, nonostante l’atmosfera macabra di tutto il racconto, più vicino ad Adam West che al tribolato decennio appena passato. Si tratta forse della strada meno battuta quando si parla del vigilante di Gotham e, proprio per questo, ancora più interessante da percorrere.
Scritta da Dennis O’Neill, tra i grandi autori di Batman degli anni Settanta, Veleno è una delle leggende più note del personaggio, grazie soprattutto al tema affrontato, quello della dipendenza dalle droghe. Il tutto ha inizio con la morte di una bambina intrappolata nelle fogne che Batman non riesce a salvare. Una sequenza tra le più tragiche mai lette sulle pagine di un fumetto di supereroi, che segna profondamente Batman e lo porta a una scelta shockante: assumere un nuovo tipo di droga, il veleno che da il titolo alla storia, che lo rende più forte e capace. Siamo di fronte al lato più umano di Bruce Wayne, un uomo che ha fallito e si sente impontente, che cade in un vortice di malessere interiore fino al punto in cui non è più sicuro dei propri mezzi.
Soggiogato dalla droga, Batman perde contatto con la realtà, licenzia Alfred e, in piena crisi di astinenza, tenta perfino di assassinare Gordon. La soluzione è drastica: per disintossicarsi si mura vivo nella bat-caverna per un mese intero. Ne esce devastato e trasfigurato, con i capelli lunghi, la barba incolta e il fisico deteriorato, ma di nuovo in possesso delle sue facoltà mentali, finalmente libero dalla droga.
La storia è figlia dei propri tempi, anni in cui gli autori prendevano il personaggio molto sul serio, calandolo in scenari realistici che rispecchiavano l’attualità e la realtà del momento. Era la direzione voluta da Dennis O’Neill, autore da sempre attento ai problemi sociali, che qui tornò a un tema già trattato in passato nell’importante storia di Lanterna Verde/Freccia Verde, in cui il sidekick storico di Freccia Verde, Roy Harper/Speedy, si era rivelato essere diventato un eroinomane a causa del comportamento poco paterno del suo mentore nei suoi confronti.
Ma Veleno è anche e soprattutto una storia d’azione. Le tavole disegnate a partire dai layout di Trevor von Eeden da Russell Braun, che al tempo era un quasi esordiente e che in seguito ha avuto discreta carriera da professionista, non hanno grande espressività ma puntano tutto sulla costruzione di una narrazione dal ritmo serrato. La vicenda scorre veloce, il tono del racconto è pulp, non ci sono momenti di pausa e c’è perfino un bel po’ di violenza gratuita, qua e là.
A un certo punto si rimane anche un po’ spiazzati: nella migliore tradizione degli action movie degli anni Novanta interpretati da attori come Jean-Claude Van Damme e Steven Seagal, la storia prende una piega esotica. L’ambientazione si sposta su un’isola dei caraibi dove Batman affronta in modo molto serio sfide al limite della parodia, arrivando perfino a combattere contro degli squali in mare aperto. Una scena tragicomica in cui Batman prende in giro sadicamente un gruppo di nemici che viene sbranato vivo, dicendogli che era meglio se si portavano il repellente anti-squalo. Una finezza di Denny O’Neill, che non si sa quanto abbia voluto citare o scherzare su uno dei momenti più assurdi mai vissuti dal personaggio.
Più dei cattivi di ogni altro supereroe, i cattivi di Batman sono mostri. Sono creature bizzarre, spesso orrori da museo o da circo, quando il circo accoglieva persone ai margini della società per colpa di qualche malformazione fisica. Proprio da questo spunto parte Facce, storia del 1992 scritta e disegnata da Matt Wagner, che all’epoca si era fatto notare per la serie fantasy Mage e per Grendel (un Diabolik in salsa americana). Tra gli autori di spicco della scena alternativa degli anni Ottanta, Wagner fu portato in DC Comics per realizzare storie brevi di Batman, Sandman ed Etrigan (un demone creato da Jack Kirby). Facce rappresentò la sua prima prova di peso nel mondo dei supereroi DC.
In Facce, Bruce Wayne vuole comprare un’isola che è però oggetto di attenzioni anche di Harvey Dent, meglio noto come Due Facce, il quale la vorrebbe utilizzare come paradiso incontaminato per la sua banda di persone affette da deformazioni fisiche, finalmenti liberi da ogni giudizio da parte della società. Harvey non ha però i soldi per comprare l’isola e progetta un piano a sfondo criminale per ottenere i fondi. Sarà quindi Batman a dover sventare le azioni di Due Facce.
Pur essendo una vecchia creazione del mondo di Batman, Due Facce diventa il personaggio che conosciamo (un ex-alleato di Batman e Jim Gordon con disturbi della personalità e traumi infantili), soltanto a partire da Batman: Anno uno e, sulla spinta di quest’ultima, dalla storia Gli occhi di chi osserva, pubblicata nel 1990 su Batman Annual 14 e realizzata da Andrew Helfer e Chris Sprouse. In quell’albo, Helfer raccontava le origini del personaggio aggiungendo lo spessore psicologico e tutti quegli elementi che l’hanno reso un grande cattivo di Batman. Prima di allora, Due Facce era sempre stato rappresentato come un freak non diverso dal Pinguino.
Wagner cerca la sintesi tra David Mazzucchelli e Alex Toth, disegna tavole in cui l’azione si dispiega attraverso super vignette, scene ombrose e pochi tratti, e realizza l’ultima grande storia del Due Facce originale. Facce racconta come le persone marginalizzate dalla società abbiano affrontato la loro condizione: chi, come Harvey, sentendosi legittimato a comportarsi da mostro per via del proprio aspetto e chi, come si scoprirà nella storia, è riuscito invece a condurre una vita normale e retta.
A Brayn Talbot dei supereroi non gliene è mai potuto fregare di meno. Nei primi anni Novanta era un autore già affermato e pluripremiato, con una carriera 25ennale sulle spalle. Per DC Comics aveva lavoricchiato su qualcosina (Hellblazer, Sandman, The Nazz) e mentre stava realizzando l’ennesimo capolavoro per i fatti propri (Storia di un topo cattivo), l’allora editor Archie Goodwin gli chiese se avesse un’idea per Batman. Un’idea Talbot in effetti ce l’aveva, e sarebbe diventata Maschere, una storia che provava a guardare il personaggio sotto un’altra luce.
«Io sono Batman. Questa è la mia città. Di notte mi appartiene», inizia così Maschere, nel modo più classico e pulp possibile, con Batman che vigila dall’alto sui vicoli di Gotham. E poi giù mazzate ai delinquenti di turno: «Nessun problema. La mia parata gli spezza l’ulna. Tanti saluti al setto nasale. Io sono Batman, mi muovo tra le onde come uno squalo. Rapido. Instancabile. Gelido. Un calcio rotante. Fa molto male. Con la precisione di un chirurgo, mi fermo a un millimetro dalla spina dorsale. Non ho nemmeno il fiatone. Potrei insistere. Ma non c’è bisogno di esagerare. Sono stato chiaro».
Nasi rotti, mascelle spezzate. Insomma, malviventi consegnati alla giustizia e poi… allucinazioni: Batman sta male, non sa cosa succede e sviene. Si risveglia in un letto d’ospedale dove un dottore gli dice che ormai per lui non c’è più niente da fare, l’alcolismo lo ha definitivamente rovinato. In preda alle vertigini, Batman cerca di farsi forza per fuggire, ma il suo costume è solo una serie di stracci e sacchi della spazzatura. In una spirale di incubi rivive la morte dei suoi genitori e si maledice per non poterli salvare.
Gotham nel frattempo è caduta nell’anarchia. Lui, Batman, non può più proteggerla. Dal suo letto d’ospedale, il dottore gli parla di caso di isteria dissociativa, di negazione di personalità, gli dice che la maschera di Batman è solo un modo per fuggire dalla realtà creandone una alternativa. Poi ancora incubi, incubi e sensi di colpa, ma infine il brusco risveglio. L’ospedale va a fuoco e si scopre che il dottore aveva catturato Batman per vendicarsi della morte del proprio padre, un pesce piccolo della mala che l’eroe aveva portato senza volere a suicidarsi. Morto il dottore, Bruce Wayne si mette in salvo, finalmente libero dalle sostanze che lo tenevano moribondo nel letto.
The End? Non proprio, o almeno non così. Nell’ultima pagina della storia, quando Batman scappa dall’ospedale rivendicando la propria maschera, c’è infatti una vignetta apparentemente fuori contesto che ritrae Bruce Wayne in stato vegetativo nel letto d’ospedale. Una vignetta chiave che ci fa capire come nella realtà dei fatti l’intera vicenda sia accaduta solo ed esclusivamente nella sua mente.
Bruce Wayne non è altro che un pazzo squilibrato, un fascistoide che vuole imporre la propria volontà sugli altri, un malato allucinato ridotto in un letto di ospedale che vive avventure immaginarie nella sua testa. Questa è la lettura che Bryan Talbot dà di Batman. Una lettura che pare lontana anni luce dall’eroe, ma tutto sommato anche veritiera. Quella di Talbot è una storia dura, che va oltre l’aspetto puramente eroico per provare a indagare l’essenza del personaggio. Chi è Batman se non un uomo tormentato che si nasconde dietro una maschera e che per superare i suoi traumi si comporta come un vigilante dettando legge in maniera violenta?
In un certo senso, Sanctum è un preludio a tutto quello che sarebbe stato Hellboy. Scritta (con l’aiuto dell’editor Dan Raspler, che Bryan Hitch definì «il padre di tutti i problemi di scadenze in DC Comics», perché gestire le tempistiche non era il suo forte, l’equivalente sportivo di un portiere con le mani bucate, ma sto divagando) e disegnata da Mike Mignola, l’avventura di Batman contiene tutti gli elementi cari al fumettista.
Mentre insegue un serial killer in un cimitero, Batman finisce preda di Osric Drood, un non-morto che, dopo essersi affiliato a una setta occulta, tenta di prosciugare il sangue dell’eroe e tornare in vita. Tra incubi lovecraftiani, società segrete, tombe, macerie e ambientazioni gotiche, non è difficile trovare i punti di contatto con l’epopea di Hellboy, le cui storie si nutriranno degli stessi principi di questa storia. Anche il disegno è ormai partito per tangenti che non hanno niente a che fare con lo stile generalista di quegli anni, tormentato dalla scuola Image Comics e tutto proteso all’infuori. Mignola, come farà poi per il resto della sua carriera, cerca l’intimismo, il silenzio, gli scorci romantici, le scene riempite di spazio negativo e i personaggi più statue che umani.
Sanctum fu uno degli ultimi fumetti (se non l’ultimissimo) disegnati da Mignola prima di dedicarsi a Hellboy e si vede benissimo come la testa dell’autore fosse già pronta a prendere armi e bagagli e trasferirsi nel suo mondo, senza alcun rimpianto. È interessante perché Mignola applicò, per la prima e unica volta, la sua visione autoriale, già abbastanza definita, a un personaggio di bandiera. Ne uscì una piccola riflessione sui temi della paura e della morte. Nulla di avanguardistico se parliamo dell’uomo pipistrello, ma il taglio, con questo Batman che si aggira, monolitico, tra cimiteri e chiese, fu iperpersonale.
La dicotomia Batman/Joker è da sempre uno dei punti focali della narrazione legata al vigilante di Gotham City. Da episodi seminali come The Killling Joke di Alan Moore e Brian Bolland fino all’inaspettata puntualità del buffo spin-off cinematografico LEGO Batman, il rapporto tra i due personaggi è stato sviscerato in ogni maniera possibile, andando sempre a confermare come si tratti di un legame impossibile da scindere. Partendo proprio da questo presupposto con Tornare in sé di J.M. DeMatteis e Joe Staton decisero di indagare le conseguenze di un’improvvisa separazione dei due nemici. Il risultato fu sorprendente e andò a descrivere il rapporto simbiotico che lega Batman e Joker sotto una luce del tutto inedita.
In seguito a una trappola tesa dal folle criminale troviamo un Bruce Wayne in fin di vita, costretto a stare mesi lontano da Gotham City, disperso in una bucolica cittadina di montagna dove trova una nuova serenità, una parvenza di pace interiore e quello che potrebbe essere il primo legame amoroso non tossico della sua vita. A sua volta Joker, orfano di qualcuno da combattere con tutte le sue forze, si rivela essere una persona solare e piena d’affetto, che nel giro di poche settimane riesce a dare un nuovo senso alla propria esistenza. Questo si traduce in una fidanzata che lo adora, un lavoro ben retribuito e perfino vicini di casa pronti a spendere solo parole gentili nei suoi confronti. L’idillio dei due personaggi finirà con la decisione di Batman di tornare a Gotham City. Il delicato nuovo equilibrio andrà in frantumi – come la psiche di Joker – confermando il suo bisogno interiore di essere perennemente in guerra, a qualsiasi costo.
J.M. DeMatteis scrive una storia curiosa, sebbene un pelo troppo didascalica nel descrivere un Bruce Wayne così prigioniero delle sue ossessioni da travolgere chiunque incontri. Se per il vigilante il ritorno a Gotham significa la fine di una piacevole pausa, per Joker è la fine di ogni speranza di una vita serena. Si tratta di una disamina coraggiosa, in grado di indagare in maniera inedita un aspetto da sempre presente nel personaggio e che ne rappresenta l’aspetto più sfumato e affascinante. I disegni dignitosi di Joe Staton non rendono particolare servizio alla narrazione che, dato tutto il concept su cui si basa, si basa quasi per intero su soliloqui interiori riportati con grande utilizzo di didascalie.
Per capire Motori bisognerebbe prima capire Ted McKeever. Il problema è che capire Ted McKeever è un’impresa quasi impossibile. Parliamo di un fumettista camaleontico e inafferrabile, che ha dedicato quasi quarant’anni di carriera a evitare qualsiasi compromesso. Ted McKeever ha dato molto al fumetto, probabilmente tutto sé stesso. Si è esaurito al tal punto che qualche anno fa ha deciso di dire basta e ritirarsi.
I fumetti di Ted McKeever sono difficilmente ascrivibili a una corrente. Sono caratterizzati da un’estetica punk e underground, ma queste etichette da sole non bastano per contestualizzare il suo stile, così personale e introverso che si fa davvero molta fatica a trovare qualche altro autore a cui paragonarlo. In carriera McKeever ha legato il proprio nome a DC Comics e a Image Comics, due case editrici che hanno provato a capirlo lasciandogli fare quello che voleva. Storie surreali, metafisiche e filosofiche che spaziano tra i generi, spesso piene di violenza e cariche di critica sociale.
Negli anni l’autore, chiamato in causa dai grandi editori, si è concesso anche qualche incursione nel fumetto “mainstream”, e Motori è una di queste. Una storia che all’epoca, il 1995, non poteva trovare migliore collocazione de Le leggende di Batman, una testata che dava ampio margine di manovra agli autori per interpretare il personaggio di Batman in storie che esulavano dalla normale continuity. McKeever scelse di utilizzare Batman per raccontare una storia di malessere sociale, in cui un individuo depresso e alienato dal proprio lavoro in una macelleria industriale decideva di debellare Gotham dal male uccidendo le persone che secondo lui incarnavano il marcio.
L’intera vicenda è narrata attraverso il flusso di coscienza del protagonista, didascalie copiose che raccontano il mondo attraverso gli occhi di un allucinato. Batman non compare quasi mai, è sullo sfondo, inizialmente rappresentato come una creatura spaventosa, quasi demoniaca, che osserva nell’oscurità le mosse dell’uomo. Per il nostro protagonista Batman è una figura ambigua, i cui intenti sono poco chiari. È una minaccia? È il male? Forse è l’angelo della salvezza, così come è rappresentato in un secondo momento: un Cavaliere Luminoso in un’armatura bianca, pronto a immolarsi per salvarci da un essere mostruoso alimentato dalle peggiori pulsioni dell’umanità, metaforicamente i motori che generano il male e che danno il titolo alla storia. Forse, infine, guardandolo negli occhi in uno sprazzo di lucidità, ci si accorge che più semplicemente Batman è solo un uomo, un uomo molto simile a tutti noi.
Negli anni Novanta, Tim Sale era un disegnatore in erba e Jeph Loeb uno sceneggiatore di successo che aveva scritto film come Voglia di vincere e Commando. I due avevano collaborato alla miniserie di DC Comics Gli Esploratori dell’Ignoto devono morire!, un tentativo di aggiornare il gruppo creato da Jack Kirby nel 1957. Il fumetto attirò l’attenzione di Archie Goodwin, editor di Legends of the Dark Knight, che contattò Sale per una storia intitolata Lame e poi, dopo essere rimasto colpito dallo stile del disegnatore, lo convinse a restare sulla testata per un altro progetto.
Sale pose la condizione che a sceneggiare la storia fosse l’amico Loeb, e così nacque Scelte (1993), un racconto in cui Batman si scontra con lo Spaventapasseri – qui con un look rinnovato e basato sul film The Scarecrow of Romney Marsh – e che fu pubblicato come speciale di Halloween. Complice il boom del mercato fumettistico e la popolarità di Batman, DC distribuì Scelte in un formato prestige al prezzo di 6,99 dollari. «Non so come, ne vendettero 100.000 copie», commentò Loeb, «e tornarono da noi a dirci “Qualsiasi cosa abbiate fatto, rifatela”».
Dato il successo di vendita, a Scelte (poi reintitolato Paure) fecero seguito due altre storie, Follia, con protagonista il Cappellaio Matto che cattura Barbara Gordon e la costringe a partecipare a una merenda con altri prigionieri, e Fantasmi, una rivisitazione de Il canto di Natale di Charles Dickens in chiave batmaniana in cui Bruce impara a non lasciare che Batman prenda il controllo della sua vita.
Le storie sono dei divertissement forse non all’altezza delle altre saghe più famose della collana, ma furono senz’altro molto più influenti, piantando i semi per una delle storie di Batman più significative degli anni Novanta, Il lungo Halloween. Con questi tre racconti, Loeb e Sale presero le misure del mondo di Batman, entrarono in confidenza con i suoi cattivi più famosi (tutti con un ruolo ne Il lungo Halloween) e perfezionarono il tono, tra l’introspezione della narrazione in prima persona e le sequenze più movimentate. Scelte e Il lungo Halloween furono inoltre tasselli molto importanti nella scrittura del film Il cavaliere oscuro.
Nel 1997 Garth Ennis era il ragazzo d’oro della DC. Da quando nel 1991 aveva messo le mani su Hellblazer non aveva più sbagliato un colpo, da Hitman fino al best seller per la Vertigo Preacher. Naturale quindi che gli venisse affidata la possibilità di scrivere su Legends of the Dark Knight, tornando a lavorare per l’occasione con quel Will Simpson con cui aveva rivoluzionato John Constantine sei anni prima. Sulla carta sembrava un piano perfetto, ma gli editor non avevano tenuto conto di un aspetto piuttosto ingombrante della faccenda: all’irlandese dei supereroi non era mai interessato nulla.
Così Freak si pone fin da subito come una vicenda insolita, con un Batman quasi in disparte rispetto alla vera coppia di protagonisti: un veterano del Vietnam in cerca di vendetta e una sboccata investigatrice. Due teste calde dal grilletto facile, nella migliore tradizione del poliziesco più verace, disposte a mettere a ferro e fuoco Gotham City pur di arrivare al loro obiettivo: piantare una pallottola in testa al Doctor Freak, una sorta di santone hippy con la passione per le droghe psichedeliche estratte direttamente dai cadaveri e il vezzo di fare il bagno nel sangue dei morti per overdose. Anche Batman inizierà a indagare su Artemis Freeker, questo il vero nome del guru, con la speranza di restituirlo alla giustizia prima che lo trovino i due vigilanti.
Già dalla sinossi si capisce come Freak sia puro Ennis: abbiamo una storia di guerra rivelata attraverso flashback e racconti, una coppia di protagonisti da buddy movie, un sacco di violenza e l’idea di una giustizia livida e sommaria. A questo si aggiungono sparatorie grondanti sangue e piombo, i soliti dialoghi incalzanti e un cattivo che riflette alla perfezione un’idea di America da sempre cara all’Irlandese. Da uno che era riuscito a scrivere una storia dove John Wayne era lo spirito guida del suo personaggio più famoso non deve sorprendere se un hippy viene preso come simbolo di tutti i mali. Senza dimenticare il fatto poi che è davvero difficile non odiarli.
A dispetto delle aspettative però Freak non si rivelò così esplosivo come potrebbe sembrare, sebbene avesse dalla sua carattere e carisma da vendere. L’attacco del primo numero è puro Rolling Thunder, e la terza parte si compone quasi unicamente di una lunga e violenta sparatoria, spostando per una volta l’atmosfera di Gotham dalle consuete tinte gotiche a quelle di un rude poliziesco anni Settanta irrobustito con il gusto per l’eccesso dei noir balistici cantonesi. Lo stesso Batman è interpretato in maniera molto meno teatrale del solito, prediligendo concretezza e un filo di umorismo beffardo.
Tutte scelte che resero questa storia qualcosa di indissolubilmente legata ai suoi autori, soprattutto Ennis, e in grado di spostare l’uomo pipistrello in territori che non aveva quasi mai battuto. A livello di esecuzione sceneggiatura e matite si limitano però a fare il loro, forse adagiandosi troppo su quello che ci aspettava dalla coppia dietro il miglior John Constantine di sempre e mancando l’occasione di confezionare qualcosa di davvero irrinunciabile.
Leggi anche: Guida di lettura al Batman di Grant Morrison
Entra nel canale Telegram di Fumettologica, clicca qui. O seguici su Instagram, Facebook e Twitter.