Lo scrittore e direttore del Salone di Torino racconta:"Il mio rapporto con il fumetto era di dipendenza. In città mi orientavo con le edicole"
“Si è rotto l’apriscatole”, constata Charlie Brown dando le spalle a Snoopy, steso sul tetto della sua cuccia, in una striscia dei Peanuts risalente al 1982. Il cane e il bambino sono all’aperto, Snoopy presumibilmente fissa il cielo. A quel punto Charlie Brown ruota sul posto di 180 gradi fino a trovarsi davanti al suo bracchetto. “Dovrai aspettare altri due minuti per la cena... d’accordo?” Il bambino si avvicina ancora, adesso è naso contro naso con il cane. “Be’, cosa ne pensi?”, insiste. Solo a quel punto Snoopy risponde sconsolato: “Come si fa a pensare l’impensabile?” Stop. Fine della striscia.
Nel 1982 avevo nove anni. Non sono state queste, presumibilmente, le prime vignette dei Peanuts che ho letto in vita mia (in Italia le strisce venivano pubblicate con un po’ di ritardo, credo, rispetto alla loro apparizione sui giornali americani), ma l’età in cui scoprii il mondo di Charles Schulz è pressappoco la stessa. Il problema, se così vogliamo chiamarlo, è che le sensazioni di stupore, sospensione di significato, inspiegabile nostalgia, impalpabile struggimento, sottile divertimento che provo leggendo oggi i Peanuts sono le stesse di allora. Struggimento e nostalgia in un bambino di nove anni? In terza elementare? Tra i prodigi dei Peanuts c’è quello di portare gli adulti a sentire il mondo, per pochi istanti, come lo sentono i bambini, e i bambini a intravedere i moti del pianeta degli adulti a cui dovranno prima o poi approdare. Tutto questo non avevo gli strumenti né il tempo per capirlo allora. Era invece molto chiaro il desiderio di leggere in continuazione quelle strisce. A centinaia. A migliaia.
I Peanuts per la verità non erano le uniche storie disegnate di cui credevo di non potere fare a meno. Compravo e leggevo tantissimi fumetti, e quelli che non riuscivo a possedere (i miei genitori, preoccupati, misero un tetto al budget) li desideravo in un modo che per certi casi sono costretto a definire disperato. (Ricordo ancora con rimpianto il mancato acquisto, nel 1985, del secondo numero di Alien, la prima rivista a portare in Italia le storie della Epic Comics). Sviluppai insomma una forma di dipendenza. Per esempio, a nove anni mi orientavo nella mia città solo grazie alla presenza delle edicole. Conoscevo posizione, grandezza, orario, assortimento di ciascuna di esse.
Ignoravo i nomi delle strade. Puntavo invece le edicole come le falene con le lampadine accese. Gli edicolanti erano i miei spacciatori. Chiamavo ognuno per nome. Si trattava degli unici adulti con cui mi piaceva parlare per più di due minuti di seguito, l’unico lavoro (quello dell’edicolante) che ero in grado di valutare seguendo i criteri di competenza e passione. Tutti gli edicolanti svogliati erano simili nell’abulia. Ogni edicolante competente lo era in modo peculiare: chi ti consigliava Thor, chi L’Uomo Ragno, chi addirittura Frigidaire (questi erano i pedagoghi secondo cui i ragazzini andavano educati a colpi di elettroshock culturali), ma tutti gli edicolanti dotati di passione, consapevoli della loro missione storica (alfabetizzare i bambini, specie quelli nelle cui case entravano pochi libri), consigliavano di leggere i Peanuts.
“Scommetto che se me ne andassi nessuno sentirebbe la mia mancanza”, si lamenta Charlie Brown, poggiato sul muretto accanto a Lucy. Un’altra striscia del 1982. In teoria Charlie Brown sarebbe a caccia di smentite, ma poiché sa di quale pasta è fatta Lucy, sorge il sospetto di un intento masochista. “Dovresti provare”, esclama infatti Lucy prima di lasciarlo finire, “sarebbe un esperimento interessante. A volte dobbiamo decidere di provare a scoprire come la pensano gli altri e... beh... se nessuno si accorge che te ne sei andato...” A questo punto Lucy è già fuori dalla scena. Nella vignetta è rimasto Charlie Brown, solo a deprimersi con il mento poggiato sulla mano.
Ci si dispiace per Charlie Brown. Però si ride anche molto. La cupezza che ogni tanto lambisce i personaggi dei Peanuts non riesce mai a eclissare il sentimento di inesausta speranza che proviamo leggendo le loro storie.
Come ho scritto, oltre ai Peanuts amavo altri fumetti, di ogni tipo e provenienza. Potrei tenere – per pura gratitudine – lunghe dissertazioni sulla scuola argentina di José Muñoz e Carlos Sampayo. Limitandoci agli Stati Uniti, ricordo una passione travolgente per i fumetti Marvel. I Fantastici Quattro, naturalmente L’Uomo Ragno, ma anche Dottor Strange, Silver Surfer, gli X-Men. Non me ne perdevo uno. Ma mentre, per così dire, i fumetti Marvel erano simili alla prosa, i Peanuts avvicinavano alla poesia. Nelle grandi saghe Marvel (famiglie disfunzionali su scala cosmica) trovavo, tradotto nei codici del fumetto popolare, gli schemi narrativi in cui mi sarei imbattuto quando più tardi avrei letto i libri di John Steinbeck, di William Faulkner, di Toni Morrison. I Peanuts invece appartenevano alla costellazione in cui brillavano gli astri di Emily Dickinson e di Wallace Stevens. Nei fumetti Marvel tutto sembrava esplicito (ma di quella apparente chiarezza dovevi saper leggere tra le righe), nei Peanuts dominava l’allusione, l’ellissi, ma una volta immerso nella loro poesia tutto diventava chiaro e la vita rischiava di rivelare un senso.
Sono passati 40 anni da quel 1982, più di 70 dalla prima apparizione dei Peanuts, un secolo tondo dalla nascita di Charles M. Schulz. Eppure la poesia rimane intatta. Le strisce di Charlie Brown e dei suoi amici non sono invecchiate se non forse nella constatazione che il XXI secolo tratta i suoi bambini peggio di quanto non fossero riusciti a fare gli anni 50, e i 60, e i 70, e forse persino gli 80 del Novecento con i loro. Ma finché, leggendo, continueremo a provare gli stessi sentimenti di malinconia, di struggimento, quella particolare sensazione di felicità sottile come zucchero filato, finché sorrideremo in modo così inusuale (tanto da farci sospettare che quella particolare piega delle labbra non ci appartenga) allora vorrà dire che Charles Schulz non ci avrà ancora abbandonato, e che un prodigio scaturito dal passato recente continuerà a esercitare la sua influenza sul nostro presente infelice.