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2022-10-14 04:59:36 By : Ms. Cindy Wang

I gol, il "tradimento", la fragilità, i record. La storia di Gonzalo Higuain, nei giorni che precedono il suo ritiro dal calcio, ci dice che non sarà mai un attaccante come gli altri.

«Per quanto è doloroso, il talento non dura». - Marsellus Wallace, Pulp Fiction

La voce che annuncia la fine trema, gli occhi si inumidiscono, lo sguardo si alza brevemente dalla lettera recitata con uno sforzo sovrumano. «Gracias a todos lo qué creyeron en mi». Gonzalo Higuaín è seduto lì, di fronte ai giornalisti, mentre annuncia il suo ritiro dal calcio, eppure sembra già passato. La testa calva e una barba troppo lunga per la sua faccia accentuano una vecchiaia che non dovrebbe esistere. La silhouette col passare del tempo si è fatta più tozza, i fianchi curvi fino a meravigliarci che in quelle condizioni segnasse ancora gol fenomenali (qui trovate l'ultimo, al Toronto, qui una splendida punizione al Cincinnati, qui ancora un mancino da fuori area dopo un dribbling dei suoi) nel teatro dell'assurdo della MLS.

Ho pensato di scrivere di Higuaín svariate volte negli ultimi anni, da quando cioè è diventato ufficiale il suo passaggio all'Inter Miami. Perché un calciatore con un talento così luminoso rinunciava al calcio europeo a 32 anni? Cosa ha portato la carriera di Higuaín ad andarsene docile, lontano dalle pressioni, ricalcando un perenne senso d'incompiutezza?

Higuain ha segnato 333 gol in carriera, 31 per la nazionale argentina, ha vinto due scudetti da protagonista con la Juventus e ha giocato una finale del Mondiale. Oggi, però, facciamo fatica a trovargli un posto nella storia, a strappare lungo i bordi della sua figura e riconoscere un disegno preciso. Chi è stato, realmente, Gonzalo Higuaín? Il centravanti onnipotente dei 36 gol, capace di rompere il record di Nordhal dopo 66 anni con una rovesciata nel diluvio, un attaccante che segnava in ogni modo, contro ogni squadra. E allo stesso tempo un attaccante sempre frustrato, emotivamente fragile, sull'orlo di una crisi, quello che si fa squalificare per quattro giornate dopo aver spinto un arbitro, nel pieno della lotta scudetto.

Higuain il traditore, Higuain che sbaglia i rigori, Higuain l'immarcabile, Higuain il ciccione.

Qualsiasi etichetta proviate ad appiccicargli addosso - ci ho provato io per primo - vi scivolerà tra le mani, resa incompleta da quello che chiamerei il paradosso Higuaín. Ovvero quella tensione che si crea tra due sentimenti opposti, fatti di un'intensità vertiginosa. Gonzalo Higuain è stato contemporaneamente amato e odiato, è stato masticato e sputato dal calcio europeo, distrutto dalle pressioni e poi santificato. Nella simbologia cristiana la storia di Higuaín assume i contorni del martirio: la fuga dal Real Madrid nell'ombra di Ronaldo, la fragilità emotiva esposta come un problema mentale, il tradimento del Napoli per la Juventus, la costante accusa di essere grasso. Negli ultimi anni europei Higuaín è stato continuamente bullizzato (termine usato da lui), odiato con un rancore talmente ostinato da cicatrizzarsi sulla sua pelle. Quante volte Higuaín ha somatizzato il dolore?

Io sono tifoso del Napoli e da quando seguo il calcio la mia squadra del cuore non ha quasi mai vinto niente. Tranne qualche Coppa Italia, i momenti di grandezza di cui il Napoli si è reso protagonista sono stati pochi, e anche quei pochi si sono di solito intrecciati con schianti dolorosi. Da bambino l'unico momento in cui ero davvero felice era quando potevo andare allo stadio con mio padre. Ho vissuto l'adolescenza con il mito di Higuaín, dei suoi gol impossibili e decisivi (al volo contro l'Inter, nei quarti di Europa League al Wolfsburg, l'azione personale contro il Legia Varsavia) e dei suoi rigori sbagliati. In tutti quei rari momenti di grandezza, così come in alcune sconfitte deprimenti, il mio tifo per il Napoli si è intrecciato a quello per Gonzalo Higuaín.

Passai il Natale del 2014 con i miei genitori nella nostra casa al mare. E se pensate che non esista una tortura più grande del passare le vacanze invernali nel caos della città, magari senza fare niente, beh forse è perché da ragazzini non vi hanno mai confinati in un paesino della Calabria il 22 dicembre. I giorni passavano tutti lenti e uguali, senza niente da fare o a cui pensare. In realtà allora ero troppo infantile per capire che un tempo lento è molto più gradevole di uno istantaneo, e sono sicuro che oggi, dopo quasi un decennio trascorso che me ne accorgessi, mi godrei anche quei giorni.

Forse li sfrutterei per dire a mio padre che potevamo comunicare anche senza parlare di calcio, sicuramente mi godrei la premura di mia madre, la sua cucina e il suo affetto incondizionato. Allo stesso modo, mi godrei ancora e ancora la doppietta di Gonzalo Higuaín in Supercoppa contro la Juventus, quei due gol sgraziati e tremendamente importanti. Uno di testa, incorando il pallone con la sua solita rabbia inespressa, l'altro in mischia, con la punta del destro a prendere in controtempo Buffon.

Mi è impossibile ripensare a quei gol, a quel trofeo vinto (che ai miei occhi non era altro che la premessa per un ciclo vincente che poi non è mai nato) senza il ricordo di quelle giornate esistenzialmente noiose, scandite dal calore familiare. E in un certo senso a scandirle furono anche i gol di Higuaín, gli stessi che qualche anno dopo mi avrebbero fatto rabbrividire di fronte a un monitor inetto e crudele, che si ostinava a mostrarmi il risultato di Inter-Juventus. Gonzalo Higuaín è stato tutto questo per i tifosi del Napoli: li ha fatti gioire e piangere, è entrato nelle più banali storie familiari da una piccola porta sul retro e poi ha annientato ogni ricordo non solo passando alla Juventus, ma strappando al Napoli uno scudetto che stava per cucirsi sul petto.

Tutta la storia da calciatore di Higuain si è dipanata nel mezzo dell'odio puro dei tifosi avversari nei suoi confronti, una idiosincrasia reciproca mai nascosta da Higuaín e che è esplosa con la faida vissuta a ogni suo ritorno a Napoli. «Basta vedere l'odio e gli insulti che ho ricevuto dai tifosi del Napoli» ha detto in estate a TyC Sports. «Il male però torna indietro, e gli ho segnato sei gol in otto partite contro». Allo stesso tempo, però, non si potrebbe parlare di Higuaín senza l'altro lato della sua umanità, l'amore passionale, ricoperto cioè da una sofferenza immarcescibile, per il pallone e per le traiettorie che il suo piede – e solo il suo – poteva infliggergli. «Amo il calcio e lo amerò sempre» aveva detto nel 2021.

Se abbiamo odiato Gonzalo Higuaín è stato solo a causa di un amore rimasto in sospeso.

Higuaín non sembra avere rimpianti. «Sento che il calcio mi ha dato moltissimo, e che lo lascio avendogli dato tutto me stesso, forse anche di più» ha detto leggendo la lettera d'addio. In effetti è difficile trovare attaccanti longevi quanto lui, capace in quindici anni di vincere con Real Madrid, Juventus e Napoli, e giocare (poco) con altre maglie gloriose come quelle di Chelsea e Milan. Se escludiamo Benzema e Lewandowski, a dire il vero, non c'è nessun altro numero nove degli anni dieci che sia stato continuo quanto Higuaín. Così prolifico, così catalizzatore delle squadre in cui ha giocato, così sublime.

Forse il talento di Higuaín non ha mai toccato l'onnipotenza di Messi e Cristiano Ronaldo, ma si è sempre mosso su un filo sottile, come se i momenti di grandezza fossero intrecciati alla sua eccitabilità, alla rabbia interiore. Anche i suoi gol più violenti, da «numero nove», contenevano un gusto unico per la bellezza. Prendete i suoi primi gol al River Plate (vedere Higuaín con le guance rosse e i capelli lunghi e arricciolati vi farà un certo effetto), gesti tecnici inimitabili per i futuri numeri nove dell'albiceleste.

Se fosse possibile tenere un dizionario del calcio, alla voce di Gonzalo Higuaín corrisponderebbe la definizione di «centravanti puramente argentino». La potenza delle gambe tozze del Pipita ricordavano l'aura da cannibale di Gabriel Batistuta, il suo senso per il gol quello di Hernan Crespo, mentre la finezza tecnica era chiaramente ereditata da un altro stile di attaccante come Mario Kempes.

Vedere tutta la (in)completezza di Higuaín atterrare in Serie A è stato un privilegio. Lui ha imparato con il tempo a conoscere le difese italiane e modificato leggermente il suo gioco, rendendolo più fisico. La dimostrazione di come Higuaín abbia imparato a godere anche del contatto con i difensori è nel secondo gol che segna al Torino nel derby del 2016/17.

Guardate come prende posizione su Barreca quando capisce che il lancio di Chiellini è troppo corto per il suo attacco alla profondità. Come resiste alla pressione, girandosi appena sente che Barreca ha abboccato alla sua finta di corpo, e infine guardate il gesto tecnico del tiro. È un gol violento almeno tanto quanto è fine nella costruzione, nell'idea che si nasconde dietro l'apparenza.

Anche in giornate no, Higuain sapeva come girare gli eventi della partita a suo favore.

Se avessi saputo che quella sarebbe stata l'ultima partita di Higuain con la maglia del Napoli, al San Paolo, non sarei mancato per nulla al mondo. Invece per me Napoli-Frosinone era solo l'ultima giornata di un altro campionato di frustrazione, e alla fine dopo essere stati in vetta a lungo in vetta, già a Udine avevamo capito che il Napoli non sarebbe tornato campione. Ma che due mesi dopo Gonzalo Higuain si trasferisse alla Juventus, beh, non lo avrebbe pensato neanche il più pessimista di noi.

Non lo aveva pensato probabilmente neanche mio padre, che pure apparteneva a una generazione a cui la Juventus non è che sta sportivamente sul cazzo, ma la si odia e basta. I tre gol con cui Gonzalo Higuain era diventato il più prolifico di sempre in un singolo campionato di Serie A, tutti segnati dal 46' in poi, segno ineluttabile della sua sfida contro il tempo, li avevo vissuti come una premonizione. Certo, quello non era stato il nostro anno, ma chi poteva fermarci, con un attaccante così forte?

Quel passaggio di Mertens stoppato dal petto di Gonzalo Higuain, dal tempo, da Dio o da qualsiasi entità a cui vogliate credere, non ha importanza, quella rovesciata nella tempesta, l'abbraccio con Sarri, erano una promessa di grandezza. Se Higuain non fosse andato alla Juventus, chi avrebbe vinto quei due scudetti? Molti tifosi del Napoli storceranno il naso, ma quello è stato il singolo gesto tecnico più vicino a Maradona che la nostra storia Post Diegum abbia prodotto. Gonzalo Higuain era fatto della metafisica che nascondeva dietro quel gol creato dal nulla.

Higuain ha segnato 121 gol con la maglia del Real Madrid. Almeno la metà di questi gol si aggirano intorno alla definizione di opera d'arte, come il pallonetto al Mallorca o il gol contro il Real Saragoza, eseguito al volo dopo un sombrero. Era arrivato appena ventenne dal River Plate, in una squadra in cui davanti a lui giocavano Ronaldo il Fenomeno e Ruud Van Nistelrooy. Per trovare il suo spazio ha dovuto aspettare con pazienza, nel frattempo segnando come sempre centinaia di gol, per poi venire spazzato via dall'affermazione di Cristiano Ronaldo e Karim Benzema.

Gonzalo Higuain è una persona sensibile. Quando parla delle cose che sono andate male non si fa scrupoli ad attaccare il mondo del calcio. Dice che la Juve lo ha cacciato a calci in culo a causa dell'arrivo di Cristiano Ronaldo (di nuovo) e che perciò al Milan era nervoso. Cosa passi tra il nervosismo e una crisi isterica come quella in Milan-Juventus del settembre 2018 è invece un punto oscuro. Ancora una volta Higuain sbaglia un rigore, contro la sua ex squadra, e pensa di vendicare i suoi nervi prima falciando Benatia e poi protestando veementemente contro Mazzoleni.

Quando le cose non vanno bene è difficile che Higuain mantenga la calma. «Io sono emotivo» ha detto scusandosi per la reazione contro Mazzoleni: «ma anche gli arbitri dovrebbero capire, non sono un robot». Cosa voleva dire, Higuain? Pretendeva forse che gli altri tutelassero anche la sua psiche? La sua emotività lo blocca per davvero o stava solo creando un nemico con cui prendersela? Voleva forse che qualcuno gli dicesse: basta, Gonzalo, torna in Argentina, qui il tuo tempo è finito?

Neanche Maurizio Sarri, la persona che il Pipita ringrazia più spesso nel mondo del calcio, è riuscito ad arrestare la caduta di Gonzalo Higuain. Prima al Chelsea e poi nell'ultima stagione alla Juventus, Sarri lo ha gestito come un figlio, lo ha coccolato e bastonato, gli ha sempre dato fiducia. Eppure i fianchi di Higuain si inspessivano sempre di più, le anche non lo assistevano più in quei dribbling così potenti, così assurdi. A poco più di 32 anni Gonzalo Higuain era arrivato al capolinea.

Higuain ha scelto di ritirarsi nel momento più felice della sua carriera. «Ora mi godo tutto. La mia famiglia, mia moglie e mia figlia, mi godo le cose che prima non potevo godermi senza essere sotto l’occhio del ciclone» aveva detto a fine agosto, quando l'ipotesi che potesse davvero smettere di giocare era prematura. Ha scelto di non rimanere invischiato nel passato, nelle cose che sarebbero potute andare diversamente. In quel gol sbagliato nella finale del Mondiale con l'Argentina, nei rigori con cui ha condannato l'albiceleste in Copa America e il Napoli in campionato.

«Ho dovuto vivere 15 anni della mia vita in modo innaturale, ingoiare molte cose senza reagire. Devi giudicare le persone che fanno davvero le cose sbagliate, non se perdi o vinci una partita». La sofferenza dietro la pressione a cui è stato esposto, a cui lo abbiamo esposto, lo ha saziato prima del tempo. Mentre gli altri attaccanti alla sua età si reinventano per continuare a giocare, o meglio per evitare di smettere, Higuain ha già vissuto molte vite calcistiche.

Higuain ha giocato otto volte contro il Napoli, e ha segnato sei gol. Alcuni decisivi, altri inutili. Io e mio padre abbiamo continuato a guardare le partite insieme, e a parlare sempre meno. Una delle prime partite che ho visto dopo la sua morte è stata Juventus-Napoli dell'agosto 2019, e anche lì Gonzalo Higuain ha segnato uno dei suoi gol.

In questi giorni le squadre in cui ha giocato, come il River Plate e il Real Madrid, hanno pubblicato una compilation dei suoi migliori gol. Alcuni sono artistici, altri da opportunista, altri ancora vale la pena riscoprirli. Massimiliano Allegri lo ha ringraziato pubblicamente per quello che ha dato al calcio: «Vederlo giocare era un piacere». Il Napoli, la squadra con cui Higuain ha battuto il record di Nordhal e segnato 91 gol in tre stagioni, inspiegabilmente tace.

La tripletta al Frosinone come manifesto di un talento eterno rimarrà comunque impressa nella mente di qualsiasi spettatore della Serie A di quegli anni. Nessuno proverà a ridimensionarla, perché Gonzalo Higuaín ha donato la sua grandezza al calcio italiano nel momento più oscuro, facendoci sentire speciali anche quando avevamo smesso di esserlo. E se ci sentivamo ancora un paese unito dal calcio, appunto, era grazie a giocatori come lui, una specie di supernove così abbacinanti da consumarsi velocemente. Di fronte alla luce di Higuain abbiamo rischiato la cecità, e adesso l'unica cosa che ci rimane di quel bagliore irreprimibile è il privilegio di averlo vissuto intensamente, di aver potuto ammirare il suo talento da vicino, sempre riuscendo a emozionarlo, sempre riuscendo a emozionarci.

Alla fine, quando si è trasferito alla Juventus mio padre iniziò a odiare Higuain. Con il tempo si dimenticò di lui, diceva che contava solo il Napoli. Io, con il cuore rimasto in gola durante quella rovesciata, non sono ancora riuscito a dimenticare Gonzalo Higuain.

Nato a Giugliano (NA), classe 2000. Appassionato di cinema, letteratura e Fabrizio De André. Studia ingegneria mentre cerca di razionalizzare la sua venerazione per Diego Armando Maradona.

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